– Avevo visto “Piccole donne” di Selene Gandini mesi fa, quando era poco più di una lettura. Beh, quello che va in scena in questi giorni al Teatro dell’Orologio è completamente un’altra cosa ed anche il mio modo di vederlo è cambiato, cercando di capire dove sia il sottile quasi invisibile filo in cui forma e sostanza coincidono. Mi spiego: non cercate il messaggio civile e sociale, non c’è, si tratta di teatro classico fatto con una freschezza nuova, ma potrebbe benissimo essere proposto al Teatro Argentina e nessuno avrebbe nulla da obiettare. A questo proposito non vi aspettate parole d’ordine da me. Non ho paura del teatro classico, trovo insopportabile Gabriele Lavia ma non per questo vanno uccisi coloro che sognano di guadagnare i soldi che ha guadagnato lui. In questo caso il lavoro di Selene Gandini non ha nulla a che vedere con il guadagnare. Al contrario, si tratta di un costosissimo dono d’amore della regista a questa storia che, per qualche motivo lontanissimo dalla mia esperienza, l’ha così ispirata. Costosissima perché Selene Gandini, in un mondo di teatro-off in cui non ci sono nemmeno i soldi per pagare i diritti d’autore, mette in scena se stessa e quattro attrici strepitose e precisissime in un lavoro in cui ogni più piccolo dettaglio è perfetto, una miniatura, un cesello, un acronimo della bellezza. Non mi era mai capitato di commuovermi per una storia che non mi piacesse. Ebbene, nella scena in cui Stefania Casellato lascia la vita, ho pianto. Perché Stefania, senza miagolii, è straziante, bellissima, credibile, insopportabilmente triste nel suo sorriso e nelle frasi sull’onda del mare che travolgono il mio cuore al di là del grasso della mia spocchia e del mio snobismo da strapazzo. Di Stefania sapevo le bellissime foto, prima di stasera non mi ero mai accorto del fatto che fosse una fantastica attrice drammatica. Selene Gandini ha prima di tutto cambiato profondamente la natura del rapporto uomo-donna (specie in quello Louise-Ladislav), facendolo finalmente apparire orgoglioso ed adulto anche per il pubblico di oggi. Ed infatti la Amy di Carlotta Piraino diventa davvero una bambina che diventa donna, che cresce in modo costante e preciso fino alla partenza per l’Europa, che segna la sua entrata nella vita degli adulti. La sua figura è un mulinello di emozioni, l’interruttore che accende la struttura architettonica che mostra in modo irrefutabile le differenze tra i diversi personaggi. Carlotta Piraino nell’ultimo anno è cresciuta tantissimo, mi ha toccato il cuore vedere come sappia essere attrice in modo così consapevole, adulto, misurato, convincente, anche quando diventa una figura del tutto al di fuori dell’esperienza femminile come la si suppone al giorno d’oggi. Lo dico perché negli ultimi mesi ho lavorato con lei come regista e scrittrice ed avevo quasi dimenticato di quale fosse il nido da cui avesse spiccato il suo primo volo quando aveva iniziato a battere le ali. In questo senso lei e Claudia Salvatore sono i metronomi di questa sinfonia perfetta. Claudia sa essere sempre al contempo vera, veridica e verosimile (wahr, wirklich und wahrscheinlich), ovvero il segno della perfezione attoriale come ho imparato ad amare il teatro in Germania ed in Scandinavia. Mi spiego. Quando recita il cattivo del romanzo giovanile di Josephine (Jo) nessuno dubiterebbe mai che sia quel personaggio il vero autore di tutto, quello sbalzo tra narratore e narratario che è il miracolo e la prodezza del lavoro di Selene Gandini, lo straniamento che secondo Viktor Sklovskij è il fulcro dell’arte, il motivo dell’emozione, il punto in cui il teatro diventa non più finzione, ma al contempo odore, visione, esperienza diretta e memoria. Per fare quel teatro Claudia è perfetta, come Laura Garofoli, del resto. L’avevo vista giovane donna insicura e poi sofferente in “Strappi”, l’avevo vista truzza e borgatamente sensuale in “Accannala”, ora l’ho vista matura senza essere distante, nobile senza essere affettata, donna senza essere stereotipo. E qui torno a Selene Gandini: ha avuto la forza, il coraggio, la perseveranza, la cattiveria e l’arroganza necessarie per andare fino in fondo e portare queste quattro meravigliose attrici a dare il meglio di se e convincere un vecchio trombone pretestuoso e borbottone come me del fatto che, “Piccole donne”, bisogna averlo visto se si vuole imparare a fare teatro, a capirlo, ad apprezzarlo, ad amarlo. Grazie.

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