Ancora un concerto di Leonardo Marcucci e Jole Canelli, stavolta con Stefano Cocco Cantini ai fiati. Incredibile, quanto siano bravi, quale intensità abbiano raggiunto, e quanto siano oramai lontani, irraggiungibili. Stasera, per la prima volta da quando ho smesso di suonare, mi ha fatto male. Mi manca. Come mi mancano tutte le cose e le persone che ho perduto per strada, me per primo. Mi sto trasformando in un cono vuoto, in un ripetitore di una voce aliena. Faccio ciò che devo fare e cerco di tenere il cuore il più possibile lontano da tutto, perché, se non lo faccio, non sono più capace di difendermi. Soprattutto, devo cercare di guarire, per seguire il consiglio di Lucio Dalla, arrivare in salute al gran finale. Ma stasera mi sono reso conto di essere vecchio dentro, e non solo fuori. Jole canta Sergio Endrigo, e mi si gonfiano gli occhi. Io che ho avuto solo te. Io non ho mai avuto nessuno, perché non volevo avere, ma essere, e purtroppo quando sento qualcosa per qualcuno non so più spiegarmi, balbetto, e preferisco essere capito male e rifiutato che battermi per un’interpretazione diversa, che tanto non verrà capita. Vittima io? Macché. Carnefice? Magari. Alieno, questa è la verità. Non sono stato capace di imparare la lingua di questo pianeta. E questo vale anche per Jole e Leonardo. Sono così terribilmente soli, ho l’impressione devastante che la gente non sappia distinguere il talento dalla bravura, ed ancora meno l’arte dalla passione. Jole e Leonardo cantano la solitudine dell’ultima mamma che piange il suo bimbo straziato. La fine del mondo. Uno struggimento mai patetico, e nemmeno rabbioso, e nemmeno rassegnato. Faccio tantissima fatica a spiegare, io che ribollo di parole ed aggettivi. Ci sono con me Sylwia ed Ines. Entrambe chiuse in sé stesse, Ines ad occhi chiusi, Sylwia quasi atterrita. Eravamo tutti soli, spaventosamente soli, e Jole sorrideva di disperazione, scrollando le spalle ed i riccioli seguendo il flusso inarrestabile delle note, delle parole, delle emozioni che ha imparato a dispensare. Ad altri ed a sé. Mi sono reso conto che, arrivati fin lì, si dà, ma non si è più capaci di ricevere. L’onda di vibrazioni non torna indietro, la gente non percepisce più. C’erano ragazzine e donne adulte che chiacchieravano e parlavano di bevute. Ma Jole non è mai sacrale, va bene lo stesso, perché è Bessie Smith che arringa la folla urlante, è Ella Fitzgerald che ride del proprio dolore inguaribile, è quello che Mia Martini, purtroppo, non è mai riuscita ad essere: l’essenzialità e compenetrazione di bravura ed amore, di rabbia e generosità, di talento e misericordia. Ed io, schiantato su una sedia, penso alla mia pochezza, alla trascurabilità del mio egotico chiacchiericcio, e non so cosa fare di me stesso. Mi salva il mio narcisismo. Devo lavorare, sono più duro della mia incapacità e stupidità, non posso ancora andare a dormire. Non ho tempo per morire, per soffrire, per far vedere la mia anima. E meno male che era solo un concerto.

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