– Volevo andare a vedere Rezza, ma poi mi sono ricordato che all’Hoolahop, solo per stasera, avrei potuto vedere “Pulp-ami” di Dario Aggioli con Alessandra Della Guardia, e quindi sono andato là. Ho fatto bene. Il locale è molto carino, coloro che lo guidano sono davvero carini e simpatici, invogliano a tornarci per andare a bere qualcosa in compagnia. Ma veniamo alla piéce. Prima di tutto al testo. Dario Aggioli, a mio parere, fingendo di fare metateatro ottiene un risultato molto ma molto più importante: smaschera la squallida e triste metacomunicazione fra uomo e donna di questo tempo – autoreferenziale, anaffettiva, spaventata. La storia d’amore (o di sesso), così come la racconta Aggioli, è solo finzione (e purtroppo credo che fin troppo spesso ciò sia vero), viene messa in scena, viene vissuta come uno strappo dalla finzione primaria quotidiana di una socialità affettata ed egotica. L’impotenza allo stato puro. Dato che abbiamo imparato dalla TV a fingere emozioni, dato che non abbiamo più la competenza lessicale e affettiva per definire ciò che abbiamo dentro, ogni crepa nel quieto incedere della noia e della masturbazione sociale diventa una ferita con cui non si può mediare, di cui non si riesce a venire a capo. Siamo “personaggi non scritti fino alla fine”, ma non siamo persone, perché esistiamo solo sul palco. Un’intuizione grandiosa, che da sola giustifica l’intera opera. L’immagine che l’autore in scena suscita di se è quella di un commediante triste, un Pierrot solitario ed avulso, che gioca secondo le regole e continuamente segnala a “Lei” che quelle regole sono una prigione, che l’amore potrebbe essere altrove. Ma “Lei” rifiuta l’esperienza in quanto tale, perché “teme il rifiuto”. Ma dato che la controparte dichiara il proprio amore, il rifiuto di chi? Qui Aggioli é straordinario. Il rifiuto è quello della dissocietà, del gruppo dei pari, della comitiva, della comunità estetica predittiva che circonda ciascuno di noi. “Lei” ha paura che abbandonarsi all’amore (che del resto non sa se prova, perché la propria incompetenza sociolinguistica non le permette di disambiguare le sensazioni e quindi è lontanissima dal sapere che l’amore non sia una sensazione, ma una costruzione di alta ingegneria…) sia di per se mettersi in pericolo, costringersi ad essere invece di apparire. Lei ha paura di essere rifiutata dal Non-Io. Come tutti gli egotici, capisce solo la differenza fra se ed il resto, non é in grado veramente di disambiguare fra diverse personalità fra coloro che la circondano. La semplificazione dei secoli del berlusconismo distrugge la realtà e l’anima. Ed alla fine “Lui” viene bandito dalla scena, cui non appartiene. Lui diventa un extraplanetario, un Non-Io che non è nemmeno Altri. Lei, invece, si rimette gli occhiali e si rituffa nella quotidianità. Ma il testo di Aggioli avverte. Fino alla prossima cotta. I bisogni, più li reprimiamo, più emergono imperiosi. E l’amore è un bisogno. Alessandra Della Guardia impersona la contraddizione fra donna, personaggio, membro della dissocietà ed amante mancata con una grazia e passione sconvolgenti. All’inizio la sua passionalità è talmente forte da suscitare sospetto. Ma è un baleno. Di colpo Della Guardia diventa al contempo una Dea della Bellezza, una Tempesta di Nevrosi, un Uragano di Freddezza Scomposta, un’immagine terrificante di sensualità e autocontrollo, un compromesso credibile ed affettuoso tra romanità, hunzikerismo, passione e paura. Quando il personaggio di “Lei” dice: sono un buco nero, i grandi occhi corvini dell’attrice si riempiono di una commozione mesta. Non siamo più alla donna che si fa scegliere e poi non sa più cosa pensare. Siamo alla donna che non sa nemmeno se abbia scelto o no, se le coppie esistano per un gioco arbitrario dei computer del destino. Si accorge dell’esistenza di ciò che suppone potrebbe essere un sentimento solo quando la persona che ne aveva tematizzato l’immanenza scompare. Alessandra Della Guardia impersona con bravura e partecipazione la donna italiana del ventunesimo secolo. Senza appartenenza vera, solo appartenenze effimere. Né ceto, né religione, né ideologia, né ambizioni, né sensazioni. Tutto è un vuoto, un vuoto che l’uomo (l’autore) promette di riempire per poi lasciare l’opera incompiuta. Il personaggio messo in scena da Della Guardia è insicura con grandissima padronanza, timida con infantile allegria, sensuale con efferata assenza ma anche disperato anelito, anaffettiva per pragmatismo e paura – sperando che un autore, un regista, un uomo riempiano di significato i campi semantici del calore. Insomma, da spettatore si ha l’impressione che la donna sia molto più “compiuta” del personaggio che interpreta, ma senza l’aridità dell’amarezza, ancora con la passione della scoperta. Ed é questa la nota che fa amare “Pulp-ami”: che sia un lavoro di grazia e leggerezza di due bambini eterni, innocenti, pieni di dolcezza, che hanno imparato con dolore le regole stupide del mondo dei grandi, ma che mantengono una propria verginità affettiva immensa. Ve ne innamorerete subito.

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