– Guardando „Digerseltz“ di Elvira Frosini mi tornano alla mente cose che temevo di aver dimenticato: un Macbeth di Perla Peragallo e Leo de Bernardinis, in cui Perla, ancora innamorata di se stessa, prima della crisi che la portò al ritiro, è ancora una soldatessa autoreferenziale e segaligna di un rigetto dell’attore classico che, allora, era veramente sorprendente. Oppure “Mein Vaters Haus”, l’adattamento tedesco del teatro antropologico di Jerzy Grotowsky ed Eugenio Barba, visto milioni di anni fa in un’Amburgo allora fredda e straniera, quando il mio tedesco era poco più che rudimentale ed io mi sentivo così abbandonato e solo… In ogni caso “Digerseltz”, che certamente vuole coscientemente far parte di quel teatro di protesta a cavallo fra 1957 e 1963, ma che nel frattempo ha letto Viktor Sklovskij, ha visto Rocky Horror Picture Show (anche se venne molto dopo ed era un’americanata), ha seguito la spaccatura milanese del Teatro politico operata dai Gufi alla fine degli Anni Sessanta. La faccio breve: lo spettacolo cerca lo straniamento, il microelemento fondamentale dell’arte, nel quotidiano autoreferenziale. Elvira Frosini mette in scena una parte di se stessa, quella che ha evidentemente problemi col cibo, senza volerne fare una questione politica, senza voler scendere troppo sul sociale, rischiando di fare dell’avanspettacolo, stando sempre attentissima a garantire un effetto estetico proprio di un balletto, facendo sempre attenzione ad apparire lei stessa come una misura del fascino, con i suoi movimenti, molto prima del testo. E’ come se si inscenasse una versione “bella” di se stessa (lunghi capelli biondi, scarpe con tacchi altissimi, vestitino attillato senza nemmeno l’apparenza di una gonna, per mettere in risalto le gambe) per mediare un orrore personale – come se il problema del rapporto col cibo lo si affrontasse onestamente e direttamente solo nell’essere in scena come una Venere pop. Quando vedo Ascanio Celestini (che secoli più tardi avrebbe studiato da Perla Peragallo, mi dicono) mi accorgo che la differenza è proprio nella fisicità dei primi anni di quella grandissima attrice, quando il di lei corpo era al contempo veicolo e messaggio, anche perché il testo, come si esigeva in quegli anni, è diretto, si riconoscono tutti gli addentellati al quotidiano, questi non sono mai mediati dall’intellettualità del teatro della fine Anni Settanta, che oggi in Italia va tanto per la maggiore. E difatti di “Digerseltz” non rimangono in mente frasi, o note (visto l’uso della musica nel pezzo) ma immagini. La scena con i figuranti mi ricorda con tenerezza delle cose fatte dal compianto Gianni Magni al Testaccio tanti troppi anni fa, quando ci spiegava: fate vedere il bello di voi mentre fate il brutto, non fate come i ragazzini di Lotta Continua, restate al corpo e alla voce! Proprio per questo “Digerseltz”, per uno come me tanto attaccato alla sentimentalità del passato, è stato uno spettacolo commovente ed evocativo.

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