Sono stato a vedere Riccardo Floris ed Alessia Berardi al Teatro Uno in “Lady Oscar” di Ferdinando Vaselli e sono davvero contento di avercela fatta in extremis, dopo aver bucato questo appuntamento più volte negli ultimi anni. Contento perché Alessia e Riccardo mi hanno gettato addosso uno squarcio su un mondo di alienazione di cui avevo sentore, ma non conoscevo. Un mondo fatto di ilarità involontaria, in cui l’effetto degli stupefacenti, però, viene mostrato nella sua funzione distruttiva della socialità fin nel suo nucleo primigenio, il rapporto uomo/donna. Mi ha fatto ridere tantissimo il testo, ho ammirato la fisicità del lavoro, ma ho sofferto con due figure che potrebbero essere i miei figli ed al contempo il segno che la traccia si è persa, che una parte importante dell’umanità conserva sì alcuni bisogni sociali fondamentali, ma completamente disintegrati dall’ignoranza, dall’incapacità di trovare parole, di formare frasi, di costruire significati se non estremamente semplici. Ma proprio in questa apparente banalità si vede la tragedia di due persone che, non avendone altre, usano 30 parole per descrivere tutto, specie i sentimenti, di cui sono ostaggi consci ma impotenti. Ed al momento della scelta suprema, se mettere o non mettere al mondo qualcuno che debba poi apprendere da loro, si vede che sotto la buccia della malattia sociale ci siano ancora i dubbi della borghesia, del moralismo, categorie che i due personaggi comprendono essere ingiuste, ma cui non hanno modelli da opporre, e quindi alla fine seguono. Guardando “Lady Oscar” mi è venuta in mente la delicatezza del film di Roberto Benigni sui campi di concentramento, ed ho pensato con amarezza al fatto che Benigni, dopo quel capolavoro, si sia talmente innamorato di se stesso da risultare perennemente fastidioso. Floris e Berardi invece sono talmente veri, fino alla fine, da essere carnalmente tragici, filosoficamente coatti, vittime e carnefici in un mondo in cui non esiste più differenza tra bene e male, tra utile e dannoso, tra opportuno e inopportuno, tra gioia ed infelicità. Tutto coesiste in un calderone compulsivo, di cui il dialetto romanesco è la guida – una lingua sarcastica e piena d’amore. Riccardo Rozzera, che era lì con me, citava giustamente “Mamma Roma”, ma anche gli straccioni di Pier Paolo Pasolini mi sembravano azzeccati. Sono proprio contento. Con questo lavoro ho intravisto una nuova possibilità artistica di cui non capivo nulla, e per la prima volta mi sono accostato al rap italiano con stima. Come dicono Alessia e Riccardo, non voglio il nientiano.

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