Mi era stato chiesto si dare la mia versione della crisi economica cinese. Chiedo scusa se ci ho messo tanto, ma si tratta di un argomento complicato ed ho avuto bisogno di tempo per leggere, comparare, cercare di capire. Ora credo di avere un’opinione più solidificata, anche se resto un apprendista stregone più che un esperto. Prima di tutto i fatti. A partire dal 12 giugno le borse cinesi (ce ne sono diverse) hanno perso tra il 30 ed il 40% del loro valore. Un titolo su tre è stato sospeso per eccesso di ribasso. Nominalmente sono andati perduti quasi 3000 miliardi di Euro – una cifra inimmaginabile. Facendo dei confronti, si tratta di un capitombolo comparabile con la grande crisi di Wall Street del 1929 ed ancora peggiore della crisi dei contratti assicurativi speculativi (detti “sub-prime”) del 2008, di cui noi europei stiamo ancora pagando (care) le conseguenze. D’altro canto, nei due anni precedenti le borse cinesi erano cresciute di oltre il 150%, il che vuol dire che il 12 giugno è esplosa una bolla speculativa – una cosa che prima o poi succede sempre, che è nella natura delle cose, ma non per questo ha esiti meno tremendi. La Cina, negli ultimi 25 anni, ha recuperato decenni nei confronti dello sviluppo malato del mercato Occidentale. Ci ha rincorso con l’industria pesante, poi quella edile ed infrastrutturale, poi pian piano tutto il resto, finché un Paese agricolo e sottosviluppato si è trasformato in un oceano di metallo e cemento, in cui l’inquinamento ha dei valori negativi da noi finora (per fortuna) sconosciuti. In questo modo la Cina ha risucchiato le risorse naturali, finanziarie, industriali, commerciali e tecnologiche dell’intero pianeta. E negli ultimi anni il governo, che controlla l’economia, ha iniziato ad investire sul welfare, ovvero sul mercato interno. Una volta cresciuta soprattutto a causa dei vincoli ecologici inesistenti e dello schiavismo praticato sui lavoratori, la Cina si è resa conto nel 2008 che, gonfia come era di dollari americani, se non avesse creato una borghesia propria, capace di spendere denaro, il Paese sarebbe rimasto per sempre dipendente dalle situazioni di altri Paesi: crescono gli Stati Uniti, cresce il PIL cinese. Si fermano gli americani, si ferma la Cina. La prima cosa che pare abbiano fatto i cittadini cinesi, una volta messi in condizione di comprare, è stato di investire in salute e prodotti stranieri, modificando nell’arco di pochi mesi le tendenze della bilancia commerciale. Investire in salute e prodotti esteri vuol dire scappare dalla Cina, come accadde in Russia negli anni di Boris Jeltsin. La reazione del governo è stata di iniziare una feroce campagna di repressione dell’evasione fiscale, della fuga di capitali, ed un allargamento ancora più spinto del welfare. Tutte cose che comprendo e che, probabilmente, avrei approvato, nella mia supponente ingenuità. Ma fare questa operazione in una fase chiaramente anticiclica (ovvero mentre tutto il resto del mondo va a rotoli) significa andare a cercare soldi non più dai clienti esteri, ma dai propri cittadini. Negli ultimi 30 mesi il governo cinese ha incoraggiato i cittadini ad investire in prodotti finanziari nazionali tutti i risparmi della gente qualunque. Non compratevi casa, non cercate di migliorare la vostra quotidianità con medicine, vestiti, cibo migliori, ma venite alla grande lotteria in cui, con crescite vertiginose, in pochi giorni potresti diventare milionario – un’onda che si era creata in Germania alla nascita della nascita delle borse per prodotti digitali circa 20 anni fa, e che ha avuto effetti terribili, costringendo il Cancelliere Gerhard Schröder, in piena recessione, a far votare l’Agenda 2010, che ha salvato la Germania da una crisi profondissima, ma a prezzi socialmente importanti, che andrebbero spiegati altrove – specie quando si pensa alla proposta grillina del reddito di cittadinanza. Ma la Germania ebbe circa tre anni a disposizione per trovare una soluzione. Il governo cinese, invece, ha avuto circa tre settimane, prima che economia e finanza si avvitassero in un disastro epocale. Ed ha reagito come facciamo anche noi, pompando soldi nelle banche e sperando che la bolla non esplodesse, soffiando e pregando. Macché. Boom. Quindi la Cina ha finanziato gli squilibri creati tra l’economia industriale, la bilancia commerciale e le necessità fiscali di uno Stato cresciuto in modo insano e tentacolare, mangiando in una notte i risparmi di tutta la gente comune. E non è bastato, sicché ora si mangia anche i soldi della borghesia e degli oligarchi, e non basterà. A questo punto i dirigenti cinesi decidono di scimmiottarci anche nelle altre misure da noi intraprese e che, lungi dal risolvere il problema, ne allontanano le conseguenze dal cuore del sistema, facendo in modo che i prezzi vengano pagati alle periferie. Di cosa parliamo? Di rendere la forbice tra ricchi e poveri, all’interno del proprio stesso sistema, sempre più ampia, nell’illusione che salvare l’oligarchia significhi porre le basi per salvare tutti, prima o poi. L’esperienza occidentale mostra oramai da decenni che questa impostazione, oltre ad essere disumana, è sbagliata. L’errore centrale, a Pechino come a New York, Berlino e Poggio Mirteto, è di considerare il capitale come il perno del sistema capitalista. Se non riesci a crescere (e non ci si riesce più) il sistema si blocca, si avvita, si inceppa, si indebita. La crescita del plusvalore fittizio, che non è più risultato della catena di estrazione – produzione – commercializzazione, ma solo delle misure finanziarie collaterali delle banche (i derivati), diventa una bolla speculativa che cresce e poi inghiotte coloro che hanno partecipato a soffiare. Ebbene, la dirigenza cinese in queste settimane è stata costretta a riconoscere alcune debolezze endemiche del suo sistema: 1) pur controllando nominalmente tutte le principali aziende, queste sono cresciute talmente tanto, e godono di tale e tanta discrezionalità, da essere guidate esclusivamente da un management scelto in base ad appartenenza di partito, familiare e di clan mafioso. Mentre nel Giappone del boom economico la corporate identity era un totem intoccabile, in Cina ognuno arraffa fin che può, sapendo che la vita è brevissima e che domani potrebbe essere al tuo posto qualcuno che non ti getta sulla strada, ma semplicemente decapita te ed i tuoi cari. Senza nessuna conseguenza. Il che significa che le decisioni del centro non arrivano alla periferia dell’Impero, che agisce come vuole e considera il proprio azionista di maggioranza (lo Stato ed il partito unico) come truppa d’occupazione alle cui spalle farsi i fatti propri. Il management di queste aziende risponde con la vita, ma solo in caso di grandi tracolli. La violenza insita in queste aziende permette di far pagare ai più deboli eventuali errori di conduzione industriale e commerciale senza che nessuno se ne dia per inteso; 2) agendo in una situazione di concorrenza solo apparente, quando l’economia cinese si contrae e riduce i costi (e quindi tendenzialmente decresce) scarica il peso di ciò interamente sui cittadini. Dato che la burocrazia statale è estremamente lacunosa, non esistono statistiche credibili sulla disoccupazione, la miseria, il lavoro nero, lo sfruttamento minorile. Diverse ONG internazionali raccontano scenari apocalittici di come ditte cinesi procedano nel disboscamento in paesi terzi, trascinando migliaia di operai, cui viene chiesto di rinunciare a tutti i diritti civili (nome compreso, ricevono una numerazione) in cambio del cibo per alcuni anni, al termine dei quali vengono abbandonati là dove si trovano. In Cina ogni anno muoiono milioni di persone in modo osceno di cui non si sa nulla, che non fanno parte delle cifre ufficiali; 3) lo Stato non controlla il territorio. Non è in grado di far rispettare le leggi (se non usando le violenza indiscriminata quando si sente con le spalle al muro) e quindi, a livello locale, non è in grado di sviluppare nessuna strategia economica e/o politica. Ma il localismo cinese non è quello dei ventimila abitanti di Biella, ma dei 20 milioni di persone accalcate in metropoli dal nome sconosciuto in cui non vale nemmeno la legge del Far West, vale solo il caso, la violenza, il sopruso, dato che nemmeno la criminalità organizzata riesce a razionalizzare cifre così enormi di donne e uomini. Noi occidentali, non avendo alternativa, abbiamo scommesso sulla Cina, perché ci permetteva di intraprendere nuovamente un cammino di crescita effettiva del plusvalore. Ma adesso abbiamo accettato la decisione di Pechino di rovesciare i costi della bolla sui più deboli – e quindi, come noi, sui Paesi in via di sviluppo e su una popolazione, tradita, che aveva sperato di raggiungere il welfare. Che succederà adesso? Apparentemente nulla, perché la Cina non permette ai suoi cittadini di mostrare in pubblico rabbia e disperazione. Anche se in un anno morisse un miliardo di persone, ciò sarebbe – su scala mondiale – irrilevante. Ma allora che succede con le importazioni, di cui abbiamo tanto bisogno? Continueranno ad un ritmo leggermente ridotto, perché questa crisi ha rigettato indietro le ambizioni dei vertici e della base del partito popolare cinese e degli abitanti della Cina. Ma ci sarà uno scivolamento, e le posizioni che avevamo raggiunto verranno ridiscusse, specie se Vietnam, Indonesia, India ed Iran saranno capaci (come pare) di farci effettivamente concorrenza. Da noi, l’onda lunga dello tsunami finanziario cinese, è già arrivata, ed è collegata ad un repentino cambio di strategia degli oligarchi cinesi che ora – invece di comprare in nome e per conto del loro governo e delle società di Stato – vengono qui nella speranza di vivere come noi a divenire parte della nostra economia interna. Salvini strillerà, ma non c’è niente da fare. Sta accadendo, e nessuno può impedirlo. Pian pianino impareremo a lavorare nelle loro aziende, accettando le loro regole della jungla, e poi aspetteremo che arrivi la prossima esplosione, quella grossa, per la quale ci vorrà ancora qualche anno.

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