Roma, quando è vuota, la mattina presto (prestissimo) è una città meravigliosa. Ma dura poco, bisogna essere svelti: i suoi abitanti inondano, tracimano, pervadono… sono per la maggior parte beceri, brutti, volgari, vestiti in modo borgatamente sciccoso, parlano solo di cibo e pallone, vivono in piccole comunità chiamate famiglie, tenute insieme da un profondo disgusto reciproco, e dalla certezza che, essendo come si è, non si possa aspirare che a cellule simili di noia e nullità parossistiche. Per cui tra gli uomini ci si racconta i trombicchiamenti veri o millantati fuori ordinanza, oppure di cosa si è mangiato recentemente. Le donne parlano tra loro di pupi (a Roma un “pupo” è un essere umano di sesso maschile che, dopo i tre anni, viene tenuto in una soluzione chimica che ne impedisce lo sviluppo mentale e lo tiene per sempre in quella condizione di infantilismo egotico). Guardano piene di noia i “mariti” e non si accorgono del fatto che stanno crescendo una nuova generazione che sarà esattamente uguale a quella precedente, una genìa di zeri sussiegosi, sbruffoni e lamentevoli. Queste “famiglie”, se non hanno carrozzine da sospingere con antipatia e frasi su quanto ci si sacrifica, portano a spasso lucertole oscene dipinte da cani, oppure genitori anziani da fumetto di Mister Magoo. Insomma, dopo un po’ di passeggiata al sole di questa eterna primavera di tepore e languide promesse, sono stato “politicamente” costretto a tornare tra le mie quattro mura per difendermi da tutto ciò. Come dice Gaber, la bruttezza è psicosomatica.
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