Dal Vangelo di Luca (23, 46): “Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo spirò”. Lo cito perché questa frase, in due formulazioni molto simili, è stata usata in queste ore da due persone differenti, in situazioni molto diverse tra loro. Una di queste sta cercando lavoro da tempo, e si affida ora ad un potente locale, peraltro in odore di malaffare («Eccellenza, sono nelle vostre mani»). L’altra, invece, usa questa frase per esercitare un ricatto affettivo su una donna («Ho messo la mia vita nelle tue mani»). In entrambi i casi la frase manca clamorosamente l’effetto richiesto, e mi sono chiesto perché, dato che io stesso, una volta, l’ho usata («Sono nelle sue mani, mi dica lei quel che devo fare»). Manca l’effetto perché se il mio valore è quello che un’altra persona da a me, questo è pochissima cosa, e chi mi sta di fronte impara in quel momento che io non sarò MAI in grado di affrontare problemi seri. Non sarò mai un supporto, ma una malattia affettiva. Chi se ne frega se a molte persone piace convivere con tali malattie. Per illudermi di essere stato più corretto degli altri, mi sono detto che la mia situazione fosse diversa. Quella frase l’ho detta ad un medico, anni fa, che aveva riscontrato una patologia preoccupante, di cui non sapevo nulla, e mi chiedeva quale strategia scegliessi per affrontare la malattia. Oggi mi rendo conto, invece, che io sia stato ugualmente debole e sciatto nel deprezzare la mia vita, esattamente come gli altri, rinunciando alla responsabilità su me stesso, perché (cosa ancor peggiore) ero disposto anche a morire per evitare piuttosto che affrontare la consapevolezza della mia situazione. Sono quindi colpevole, come altri, di ricatto – un ricatto che la persona che mi / ci stava di fronte, per motivi culturali, spesso percepisce come vincolante, e certamente come un peso. Il medico che avevo di fronte fece una risata nervosa e mi disse: «Vaffanculo, Paolo. Non sono tua madre, non fare giochetti con me, sono già molto stanco». Naturalmente gliene sono profondamente grato, perché è andato a mettere il dito sull’orgoglio, stimolando quel poco di amor proprio di chi, come me, fa fatica a volersi bene – ma non per disistima, quanto per pigrizia. Coloro che dicono una frase simile sono bugiardi manipolatori, sono troppo pigri per amare sé stessi, quindi preferiscono delegare ad altri, salvo poi relativizzare, dicendo che si trattasse di un modo di dire. Ma vi assicuro che, quando ho detto quella frase, la pensavo davvero. Se di fronte a me avessi avuto una donna, costei si sarebbe sentita in dovere, una volta ancora, di salvarmi – e voi tutti sapete quanto le donne, a causa della loro educazione, amino salvare gli altri piuttosto che sé stesse, perché anche loro, a loro modo, peccano di pigrizia e di rifiuto della consapevolezza, della propria responsabilità ed autostima. Questa frase, insomma, la dichiara Gesù morendo, pregando Dio. La può dire un condannato a morte di fronte al plotone d’esecuzione. Per il resto si tratta di una grave manifestazione di manipolazione ricattatoria ed il segno di una profonda disonestà e pigrizia. Abbiamo tutti affidato la nostra vita alla nostra mamma, ma (perbacco) eravamo bambini. Questa estate una bambina di sette anni e la sua sorellina di quattro mi hanno dato severissime lezioni sulla proibizione ASSOLUTA di mettere la propria vita nelle mani altrui, persino in quelle di mamma, la cui autorevolezza non è in discussione, ma, come dice Mya, quattro anni: «Se non dico bene cosa voglio, dopo non so se voglio ciò che ricevo». Bang. Gran ceffone, direi. Vorrei aggiungere che a dire frasi del genere, per quanto ne so, sono solo maschi. Ma, come diceva Ziononno, i maschi raramente raggiungono la maturità di un bimbo di cinque anni, e se ne capiscono la portata, generalmente la rifiutano. Meglio fare pena, che portare il fardello di sé stessi. Dopodiché, naturalmente, siamo tutti millantatori, sboroni, ed arriviamo al «Tu non sai chi sono io», che logicamente nasconde il fatto che chi pronuncia questa frase è il primo a non saperlo ed a non volerlo sapere. Solo adesso capisco alcune frasi di mio padre, che quando gli spiegavo come mi sentissi, mi ripeteva: «Sono tutti problemi di lusso». Perché nel mondo della sua gioventù, ed in quello che (purtroppo) sta tornando in auge, si sopravvive solo se si sa esattamente cosa si vuole essere e come. O ci si batte, armi in mano, o si muore. O si prende piena consapevolezza dei prezzi che la vita richiede, per ottenere un risultato, e li si paga, o si diventa immondizia sociale, un peso inutile e dannoso, una malattia affettiva. Io non voglio essere una malattia affettiva. Per questo ho preso una decisione importante, sia per la mia salute, che per la mia vita quotidiana, che comporta una serie di prezzi. Quale sia questa decisione è cosa personale, qui volevo solo esporre il ragionamento che ho fatto. Ma sul prezzo sono più disposto a parlare. Uno su tutti. Vendo la mia enorme collezione di vinili e di CD. A chiunque lo dica, non riesce a crederci. Ma anche in questo caso, lo ammetto, mio padre me lo va ripetendo da decenni. «Dai via quella roba, non ti serve». Hai ragione, Papà, non mi serve più. Devo fare altro, e devo farlo subito. In un momento fortunato della mia vita, nel quale ho delle persone intorno che mi vogliono un bene dell’anima. Non sono, non voglio essere una malattia affettiva. Io sono Paolo, signore e signori. Sentirete ancora parlare di me.

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