– Ieri sera sono stato al Forte Fanfulla a vedere “Petimus Rogamus” di Lorenzo Montanini con Carlotta Piraino, Daniel Plat, Mersia Valente e Diego Venditti. Ebbene, non ne sono ancora tornato. Il lavoro dura (penso) dai trenta ai trentacinque secondi, è una scheggia impazzita di uno sketch di Carosello su come le promesse di vita, le “magnifiche sorti e progressive”, trasportate in un grand-guignol in cui si mescolano la papessa nana che parla in pseudo-latino, la guardia svizzera che si trasforma in Gene Kelly e canta dell’orologio biologico, e due pupazzi animati della Kellogg’s degli anni 50 che si risvegliano 60 anni dopo a Zagarolo, siano divenute la condanna di un mondo in cui il matrimonio e la sessualità divengano inconoscibili, spaventosi, morbosamente marci. Vi dico subito che questa breve piéce funziona (a mio parere) soprattutto per tre motivi: 1) la straordinaria bravura degli attori, specie di Carlotta Piraino e di Diego Venditti. La Papessa trasforma un farfugliare pseudo latino maccheronico in una danza nuda al palo, in un esorcismo escatologico che invoca l’Olimpo cattolico a mitragliare la terra, in un travet meneghino che parla di morale come se si trattasse di un codicillo del manuale Cencelli. La guardia svizzera è brillantissima, specie quando nella sua “momento Gene Kelly” spiega i lati positivi della solitudine dell’uomo solo (la donna sola no, ci dice il testo): roboante, fisicissimo, affascinante, convincente; 2) la musica scelta dal regista. Si tratta di canzoni che non conosco, ma specialmente la prima, che trasforma il duo Plat-Valente in un delizioso incubo carillon, è assolutamente insostituibile. La scelta di “Deutschland über alles” per simboleggiare il male è un po’ greve, ma lameno non lascia adito a equivoci: tutto ciò che vediamo sul palco è meccanico, disumano, letale, mostruoso; 3) L’inesistenza dei personaggi, la loro assurdità, il loro essere solo sogni del nostro subconscio, parti della nostra memoria, citazioni di citazioni, strumento tutt’altro che duttile di incanalamento della nostra capacità di associare. Il pubblico ha riso tantissimo. Non ho riso mai. Non perché non mi sia piaciuto, anzi. Ma io, di questi mostri qui, ho paura, non do loro il benvenuto nella mia coscienza come fanno molti. Che restino sul palco, dove li posso vedere, e cercare un rimedio apotropaico. Un lavoro straordinario, insomma, una miniatura dell’orrore, un forte richiamo all’attenzione ed all’introspezione, un coraggioso sasso che si tira da solo in uno stagno fin troppo disorientato di umanità.

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