Martina Gedeck ha avuto la fortuna di recitare in quelli che, a mio parere, sono due dei quattro film più importanti girati sulla DDR. Quei film sono “Sonnenallee” (Viale del Sole), “Goodbye Lenin”, “Das Leben ist eine Baustelle” (La vita è un cantiere) e “Das Leben der Anderen” (La vita degli altri”). Lei ha avuto un ruolo deuteragonista nel penultimo ed il ruolo principale nell’ultimo. Lei, bavarese, ma andata giovanissima a vivere a Berlino Ovest, è riuscita più di tutti ad impersonare le contraddizioni delle donne di quel Paese, di quei tempi – una parabola esattamente opposta a quella di Christiane Paul, icona della Berlino Est di fine regime, e divenuta poi medico in Baviera, sposata con un tale danarosissimo e dimenticabile. Martina Gedeck, invece, ha fatto la scelta di rimanere un punto di riferimento politico, e non a caso era Ulrike Meinhof nel film “Der Baader Meinhof Komplex”, un film durissimo, basato sull’omonimo libro del più famoso giornalista di “Der Spiegel”, Stefan Aust, che racconta di come i capi della RAF siano stati ammazzati in carcere e di come ci fosse un’osmosi macabra tra il terrorismo rosso ed i servizi segreti – in Germania come in Italia. Il motivo per cui proprio stanotte parlo di lei non ha importanza, perché ciò di cui mi sento di dover scrivere è di ciò che le figure di quei film rappresentano nella visione della realtà. In “Das Leben ist eine Baustelle” la signora Gedeck è un’apparente sgallettata che, per vivere meglio nella DDR, sposa un poliziotto truzzissimo e, in quel modo, protegge la famiglia, molto esuberante, e poi, dopo la “Wende” (il Cambiamento) resta con il poliziotto, perché non ci si raccapezza più nella nuova vita di dopo la caduta del Muro. In “Das Leben der Anderen” è l’attrice più famosa della DDR e la compagna dello scrittore Dreyman, oltre ad essere l’amante di un ministro, sempre con l’idea di proteggere sé stessa ed il suo uomo. Un ruolo veramente simile a quello di Ulrike Meinhof. Non oso parlare d’amore, perché non sono sicuro di sapere cosa sia. Nei nostri tempi quieti, l’amore è qualcosa che ci possiamo permettere, è una consolazione contro cose che ci fanno soffrire, o un ideale dietro il quale corriamo inutilmente, perché (per qualsivoglia ragione) non riusciamo a viverlo. Amare in una situazione in cui la mano del potere ti usi contro la persona che ami, obbligandoti a disprezzare te stessa, la tua propria vita, a dover continuamente scegliere tra prostituzione o morte, è un lusso irraggiungibile, altro che eroismo. I personaggi di Martina Gedeck cadono proprio su quell’ostacolo insormontabile. Chi continua a credere che amore e denaro muovano il mondo, o mente a sé stesso o è stupido. Il mondo si muove seguendo pigrizia e paura. Lo so, lo ripeto fino al vostro sfinimento. Magari è vero che ognuno ha un suo prezzo. Ma è ancora più vero che ognuno ha un limite di sopportazione del dolore, della paura e dell’umiliazione, oltrepassato il quale esiste solo il suicidio. Quei film, tutti, parlano di come agli esseri umani – e specialmente ai maschi – piaccia spingere le persone oltre quel limite, goda nel vedere altri che si distruggono, si appaghi dell’altrui intollerabile sofferenza. Ed in tutti questi casi si vede bene come il singolo uomo possa mostrare umanità, di fronte al dolore altrui, mentre la burocrazia sia spietata. Oggi, la nostra vita viene sempre più burocratizzata e spersonalizzata. Le singole persone vogliono rinunciare alla propria responsabilità e si affidano volentieri alle regole burocratiche, pretendendo che la burocrazia punisca coloro che, in qualche modo, ci rechino l’affronto di essere libere e felici. Nel nostro bisogno di odiare e reprimere, nel nostro essere invidiosi, ci dà un piacere meschino ma glorioso sapere che una forza spersonalizzata punirà tutti gli altri, e ci rende remissivi quando quella forza colpisce noi. Questo sentimento generale, così radicato nella società contemporanea, è l’humus su cui crescono e fioriscono i regimi totalitari più tremendi. Da un lato quelli che uccidono milioni di persone con una violenza selvaggia e causale, dall’altro quella efferata, tutta europea e cristiana, del costringere l’altro ad uccidersi o prostituirsi. Sicché noi tutti, in parte, in questa “cosa oscena che si ostinano a chiamare democrazia” (Giorgio Gaber), cerchiamo un modo di prostituirci il meno possibile (o al prezzo migliore) e ci vendichiamo dell’umiliazione che permettiamo ci venga inflitta, vedendo altri soffrire. Il potere ha imparato la lezione. Basta con la cultura, l’educazione, il senso civico. Sono richieste: rabbia, invidia, ignoranza, remissività. Essere contro è diventato impossibile. Si appartiene a chiese che fanno parte tutte dello stesso sistema, ma magari con quel tocco messianico di violenza uniformante, che ci porta diritti al Big Brother di George Orwell. Pensateci. Nel 1967 il Presidente Giuseppe Saragat portò in Senato Eugenio Montale. Un decennio più tardi Sandro Pertini ci portò Norberto Bobbio, Camilla Ravera, Eduardo de Filippo. Tutte persone che furono attive nella vita politica. Negli anni 90 il grande movimento di opposizione dei Girotondi venne messo in piedi da Nanni Moretti. Oggi, invece, a lanciare un movimento politico è Beppe Grillo, dopo che Berlusconi ha portato in Parlamento Gerry Scotti. Mi fa paura pensare chi possa essere il prossimo. Magari un pittore di acquarelli con dei baffetti assurdi.

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