Circa una settimana fa, il 23 marzo, alla tenera età di 91 anni, è morto Lee Kuan Yew. Per chi non sapesse chi fosse: è stato il “padre della patria” di Singapore, l’uomo che, nel 1963, era alla guida del partito indipendentista che ottenne la fine della colonizzazione della penisola malese e che due anni dopo, quando vide che nella Malaysia dominavano le tribù familiari, le lotte religiose e la criminalità cinese, decise di rendere Singapore, la sua città, indipendente dal resto della penisola. Venne deriso, perché Singapore era poco più di un villaggio di pescatori. Lee Kuan Yew è rimasto presidente di Singapore dal 1965 al 1990, trasformando quel villaggio in uno dei Paesi più ricchi del pianeta con un’industria altamente tecnologica che è sopravvissuta a tutte le crisi, un’amministrazione dello Stato efficiente e snella, un sistema educativo che è generalmente considerato il migliore del Pianeta (con una dozzina di scuole internazionali in cui vengono a studiare giovani da tutto il mondo), un sistema sanitario efficiente ed avanzato, una politica di sostegno culturale poliedrica coraggiosa. Naturalmente la sua è stata una sorta di dittatura, o di monarchia illuminata, visto che, quando si dimise, a soli 66 anni, impose l’elezione a Presidente di suo figlio, il Generale di Brigata Lee Hsien Loong, che continua a guidare il paese secondo i dettami del padre, che ha riunito i suoi pensieri e tutti gli atti del suo goverrno ed il contenuto delle discussioni interne allo stesso, commentate, in volumi e volumi di scienza politica. Lee Kuan Yew disprezzava la dottrina Bismarck su cui è costruita la teoria degli Stati nazionali europei. Diceva: “L’essere umano ama la vita e tende alla vita. Il compito dello Stato è di aiutare la vita e reprimere e cancellare chi congiuri contro di essa”. Ed aggiungeva: “L’essere umano ama vivere in gruppo. Ma quando è il gruppo a dominare l’uomo, costui muore o inizia ad uccidere”. Vi sembrano frasi banali? Provate ad applicarle. Provate a dire che i partiti, le religioni, le tribù, i clan, possono esistere in privato ma non possono svolgere una funzione pubblica. E di Singapore non si conosce nessuna squadra sportiva rilevante. Ma la Polizia e l’Esercito, che praticamente coincidono, sono forti e severissimi. Ma tutti i colleghi che conosco che vivono e lavorano laggiù mi dicono la stessa cosa. A Singapore si vive liberi, la libertà di espressione non è una presa in giro. Nessuno ti da fastidio se vivi in modo “diverso”. Ma questa società tutta particolare funziona anche perché Lee Kuan Yew è riuscito ad instillare nelle generazioni che si sono successe dopo l’indipendenza una consapevolezza tutt’altro che asiatica dell’individuo, del suo destino come creatore di progresso e ricchezza generalizzata, fanatico del proprio senso di responsabilità. Dice un mio amico: “Chi non ha famiglia, il venerdì sera esce, va al karaoke, si prende una sbronza, cerca più o meno inutilmente una ragazza. Ma al lavoro, lavora”. Possiamo volere un Paese così? Una semidittatura illuminata che ci costringa tutti all’efficienza e che in questo modo ci renda ricchi e ci tolga l’ansia, che ci dia un’illusione di libertà? La mia risposta, del tutto personale, è: no, io non lo voglio. Ma non voglio nemmeno l’Italia del bugiardismo imperante. Quindi credo che dovremmo, in tutta umiltà, andare ad imparare da coloro che vivono con successo in modo radicalmente diverso dal nostro. Perché nell’analisi PISA gli studenti di Singapore sono bravi esattamente il doppio dei nostri. Perché i servizi funzionano, la gente lavora etc etc etc. Ma quando un cittadino di Singapore viene da noi, a causa del salvinismo becero, ignorante e pigro, è un negro, un uomo di serie B. Naturalmente non dobbiamo nemmeno divizzarlo, ma dovremmo capirlo, conoscerlo, imparare da lui. Lee Kuan Yew è morto, ma Singapore ha avuto una transazione durata cinque minuti. I membri del governo si sono riuniti, hanno deciso che non debba cambiare nulla, e si è ripartiti. Da noi, naturalmente, di tutto ciò non si sa nulla – nonostante nel resto del mondo su quest’uomo di un Paese lontano siano stati scritti chilometri di inchiostro…

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