Enrico Mentana, che come tutti sapete è uno dei personaggi inventati dalla fantasia di Maurizio Crozza per rappresentare una sua idea surreale e simbolica dell’Italia, ha dato del “webete” ad uno che, straparlando del terremoto di Amatrice, scriveva cosa folli. Il termine ha avuto successo perché è divertente, ma soprattutto perché designa un tipo di apparizione virtuale sempre più rilevante. Ognuno di noi sa benissimo cosa sia un webete, senza che nessuno glielo spieghi, anche se magari ognuno di noi ne dà un’accezione diversa – e sinceramente non oso immaginare che fine possa fare questa parola in bocca ad un Grillino fondamentalista. Sta di fatto che la rabbia sussiegosa e straripante che si riversa sui social network è arrivata ad un livello tale da divenire essa stessa fenomeno culturale e, quindi, cultura. In questi anni ho scritto chilometri di righe sull’analfabetismo funzionale, sull’analfabetismo di ritorno, sull’analfabetismo affettivo. Ma “webete”, a mio parere, supera un’altra barriera. Sempre più persone conducono (specie su whatsup e telegram) conversazioni contemporanee con più persone, leggono e commentano decine di post su Facebook ogni giorno, passano ore con gli occhi rapiti dallo schermo – e molti di loro sono persone intelligenti. Quella del “webete”, ovviamente, è una deviazione di questo comportamento, già di per sé gravemente disturbato e deviante. Alla base di entrambi i fenomeni c’è un bisogno disperato di velocità, di semplificazione, di riduzione ai minimi termini, di sostituzione dell’affettività con la moltiplicazione di contatti apparenti, di “like”, di semplificazione dei rapporti (sesso sì, sesso no mi pare il più diffuso), grazie alla quale chi ha problemi seri di autostima e di consapevolezza dei propri sentimenti può creare un teatro multicolore in cui il suo avatar, un po’ alla volta, prende il posto dell’io che si disprezza, che non si capisce, che non funziona. Sono sempre più le coppie nate su Facebook, persone che si innamorano di persone inesistenti, mascherate dalle apparizioni elettroniche e virtuali, dato che già prima ognuno di faceva fatica a capire chi fossero gli altri, immaginatevi ora, che ognuno di noi conduce due esistenze completamente parallele e scollegate l’una dall’altra… Persone che, una volta entrate in questi rapporti di coppia, si violentano e mentono a manetta per cercare di mantenere l’artificio creato sul web… Non sto qui a dare lezioni a nessuno, perché io stesso, come vedete, sono vittima e complice di questo meccanismo. Mi spaventa, ad esempio, che il mio post che ha raccolto più favore sia stata una mia foto con i capelli corti. Meno sono i contenuti, più l’adesione. Se fossi una bella ragazza mi basterebbe mettere una foto sognante per scatenare chissà cosa. Altri si lasciano fotografare (o fanno i selfie, che sono ancora un passo più avanti nell’alienazione) in pose che ricordano un’iconografia elementare, spasmodica, aggressiva e gravemente recessiva. Alcuni di costoro pubblicano aforismi basati sull’allitterazione, e non sul contenuto, e come tutti gli analfabeti funzionali attribuiscono ai suoni delle parole un valore magico. Sono anche loro webeti? A partire da che punto si è ubriachi, drogati, bulimici, webeti, maniaci, criminali? Chi stabilisce la linea di demarcazione? Oggi le trasmissioni TV hanno insegnato come valga tutto: ognuno può dire qualunque cosa a chicchessia, la sostanza è morta. Insomma, Maurizio Crozza ed il suo avatar virtuale hanno avuto un colpo di genio, ma invece di riderci su o roderci il fegato dovremmo scrutare dentro di noi e cercare di capire e se possibile debellare il webete che c’è in ognuno di noi.

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