Non l’avevo ancora visto. Non vado mai al cinema, e poi ero diffidente. Sto parlando di “Prima che la notte”, un film sull’avventura del mensile catanese “I Siciliani”, e sull’omicidio, voluto e realizzato dal Clan di Nitto Santapaola, del suo fondatore e direttore, Giuseppe “Pippo” Fava. Avevo paura di esserne deluso, anche se sapevo che la sceneggiatura fosse stata fatta dal figlio, Claudio Fava, e dal giornalista di punta di quella generazione, Michele Gambino. Tanti di questi film sulla mafia li ho trovati gonfi di retorica placativa – minchiate. Quando lo hanno passato in TV, giorni fa, ero occupato, e me lo sono perso. Ho recuperato stasera, e vi dico che questo film DOVETE guardarlo, ogni italiano per bene dovrebbe guardarlo e cercare di capire VERAMENTE di cosa parla. Della mafia, certo. Del giornalismo, ma sicuro. Della corruzione, della Sicilia (e dell’Italia) malata, della paura della gente qualunque. Anche. Credo che parli di tutto questo. Ma in realtà ha un solo, terribile tema: l’amore disperato per la vita. Un amore testimoniato da un giornalista/artista di 50 anni che, arrivato al punto della propria maturità, invece di scrivere un libro o far uscire un giornale, scrive l’anima di un’intera generazione, ed in pochi mesi cambia per sempre il cuore ed il cervello di chi lavora con lui. Di quei ragazzi di allora conosco bene Michele Gambino, ma ho conosciuto ed ho lavorato insieme ad Antonio Roccuzzo ed a Riccardo Orioles. E solo ora, dopo aver visto due volte il film, di seguito, una volta dopo l’altra, alle tre e mezza del mattino, comincio a capire delle cose di loro che, a suo tempo, non avrei nemmeno potuto immaginare. Ed ho pianto come un vitello in punti che non vi racconto, perché sono miei, sono parte della mia vita, e perché ho un immenso rispetto per Michi e per gli altri. Ho quasi 60 anni, e so bene che anche gli eroi hanno debolezze, che anche gli eroi fanno le cose per caso, senza percepirne fino in fondo la portata, ma questo non diminuisce affatto, nemmeno di un grammo, il loro eroismo. Oggi io so che la mafia uccide solo se necessario, ed ha ucciso Pippo Fava e Peppino Impastato, ed altri, come Siani, Tobagi, De Mauro, Spampinato, Francese, e la lista è ancora lunga, perché smettesse l’onda di disprezzo, di cui la mafia ha ancora paura. Ma Fava e Impastato sono diversi da tutti gli altri. Nel film, Pippo Fava dice: “dobbiamo divertirci, ma farlo seriamente”. Sfidarono (tutti) l’orrore della mafia con una risata di sprezzo, ma anche di giovane allegria. E quando morì Fava, morì non la serietà della lotta, ma quell’allegria. Michele Gambino mi venne incontro di notte, nell’inverno del 1992, camminando al centro della strada cantonale di quattro corsie, vuota per l’ora, che attraversa Locarno. C’era solo lui, in strada. E se lui non fosse venuto a prendermi, io il giornalista non lo avrei fatto mai, perché è stato lui a dare un indirizzo a quello che era un coacervo di frustrazione, ambizione, entusiasmo, voglia di menar le mani. Grazie a lui, quando sono arrivate le botte, ho sempre pensato: mi è andata bene, sarebbe potuto succedere qualcosa di molto peggio. Perché Michi, fuori dalle cose “ufficiali”, era rimasto un “caruso” che rideva di tutto. Ci mandarono in Lussemburgo per intercettare un faccendiere che lavorava per Craxi, tale Mauro Giallombardo. Passammo una notte assurda di appostamenti idioti e scivoloni nel fango, per poi scopriire, la mattina doopo, che il Giallombardo era andato a Milano e si era consegnato ai magistrati. Ne abbiamo riso per anni. Siamo sopravvissuti alla morte del giornalismo e ci siamo persi di vista, così come ho perso di vista Paola Pentimella Testa, Marco D’Auria, Paola Papa, perché la vita vola velocissima e le strade si dividono, dapprima impercettibilmente, poi per sempre, e nemmeno sai bene come. Questo film mi sbatte nuovamente in faccia una realtà cui non penso mai, e faccio male. Annegato ed abbrutito dalla realtà come è oggi, circondato da persone che a quell’epoca nemmeno erano nate, lascio che alcuni ricordi fondanti scompaiano dalla parte visibile della vita. No, non ho mai scritto per I Siciliani, sono solo orgoglioso di aver lavorato con alcuni di quei ragazzi, più tardi, quando ci fu “Avvenimenti”… ma soprattutto sono orgoglioso e ferito nel vedere di nuovo quale grande occasione fosse quel mensile catanese, del fatto che ne siano consapevoli in pochi, e di come venne affogato nel sangue e nelle trappole che la vita ti tende, e cui non riesci a sfuggire. Fava ed i suoi carusi non vanno giudicati, ma guardati con amore e con riconoscenza, sapendo che nessuno di noi è in grado di curare la ferita terribile che li divora da 30 anni, e che i difetti che hanno, da esseri umani normali, non cambiano nulla. Niente caciara. Erano, sono, restano grandi giornalisti, grandi donne e uomini, eroi di una lotta mai terminata, e di cui non abbiamo il diritto di dimenticarci MAI.

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