Quando, tanti fa, lessi “Notturno indiano” di Tabucchi, mi stupì la forma scelta per raccontare quella storia su un viaggio misterioso alla ricerca di una persona scomparsa: l’Io Narrante, ovvero “la voce fuori campo” che racconta la storia, sapeva della storia stessa meno del protagonista, sicché c’era una continua discrasia tra il contenuto dei dialoghi e le informazioni in nostro possesso come lettori. Ricordo che, come spesso accade con gli espedienti formali, trovai il libro scadente, e con l’eccezione di “Sostiene Pereira” ho trovato il manierismo di Tabucchi sempre lezioso e noioso. Finché un giorno mi è capitato in mano “La ricchezza” di Marco Montemarano, che a mio parere è uno dei più grandi capolavori dell’ultimo quarto di secolo – in una Roma degli anni 70 un ragazzo si innamora di una sua quasi coetanea, ma anche dei suoi due fratelli, e racconta delle gioie, dolori e lutti di quella gioventù trascorsa in quattro nella Roma degli Anni di Piombo. Ma il libro ha una straordinaria sorpresa: alla fine scopriamo che i ricordi dell’Io Narrante sono stati falsificati (dalla sua memoria, dal suo dolore, dalla sua fantasia, dalla sua struggente malinconia) al punto tale da rendere la storia letta fino alle ultime pagine uno straordinario spaccato del senso della vita di quegli anni. ma basata su accadimenti quasi esclusivamente falsi. Adesso è uscito un nuovo romanzo di Montemarano, che si intitola “Un solo essere” e racconta la vicenda di una giovane ragazza abruzzese che vive ad Erlangen (una piccola città universitaria nel nord della Baviera) e dell’omicidio del suo compagno, un ragazzo tedesco che si era appena trasferito da lei. Anche in questo caso solo nelle ultimissime pagine si scopre cosa sia veramente successo ai vari personaggi che appaiono nel libro, e specialmente al Professor Alexander, una figura straordinaria a metà strada tra il Nino Manfredi di “Pane e cioccolata” e la figura di professore universitario recitato da Sean Connery nel film in cui è il padre di Indiana Jones. Non è un capolavoro alla pari de “La ricchezza”, ma è un libro veramente molto bello e sofferto sugli italiani che, trasferitisi in Germania, non potrebbero più tornare (un po’ come il Vicequestore Rocco Schiavone esiliato ad Aosta nei romanzi di Antonio Manzini). E’ un libro sulla perdita di tutto: delle radici, dell’amore, della memoria, dell’identità, della famiglia, della vita stessa. Vi consiglio di leggerlo con una punta di malinconia prepagata, perché vi farà malissimo e benissimo allo stesso tempo.

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