Conosco questo odore “occupatevene voi” che circoncide lo spazio che mi è permesso concepire come raggiungibile, trasformandolo in un cerchio mistico, in cui la fatica è il liquido che frena le vene, le tempie, la voglia di vivere. Inizia comunque con un ago nel dorso della mano, gli occhi voltati, e poi la rilassatezza e la necessità di pazienza – un surrogato della serenità. Conosco questo sapore che inganna il palato, e più tardi la pancia, e che annuncia che la vita rallenta, la notte diviene un punto lontano e invisibile, il sonno un balbettio del dolore, ed il rimpianto si fissa su cose che, altrimenti, nemmeno avrei visto. Perché la vita è un torrente in tempesta che ruggisce e dà vigore, pieno di tutto, tracotante di bellezza e terrore, e qui, dove sono, è il contrario, un luogo in cui tutto si riduce. Domani ne sarò fuori. Domani. Un giorno che non so quando sarà, perché qui il tempo segue regole del tutto diverse, ed ha il ritmo del sorriso di persone in verde tristezza, che sorridono e si battono eternamente per tirarti a riva con loro, per non farti affogare, e sembra che abbiano forza per chiunque anche quando non ne possono più. Ma domani sono fuori, ed anche stavolta c’era un “Gildo”, che non incontrerò mai più. Come tutte le parti di me che ho frainteso. Adulti e bambini compiono tutto il tempo degli errori, continuamente. La differenza, ho imparato, è che gli adulti ne combinano sempre di nuovi, mentre i bambini ripetono superstiziosamente tutti gli sbagli che hanno sempre commesso, sperando che arrivi di nuovo la Cavalleria a salvarli, come quando tutto era dopodomani e primavera, sperando che finisca con un cazziatone, uno scappellotto, una figuraccia che sarà presto polvere. Ora c’è solo una persona che possa arrivare, per i guai vecchi come per quelli nuovi. Sono io. Ed a volte, nel dolore fisico, mi sento bello e bravo, e non mi importa di ricevere un premio. Basta respirare ancora, e poi ancora e ancora.

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