Nulla è più lo stesso. Anni luce di viaggio interspaziale, comete, asteroidi, galassie imperscrutabili e silenziose, solitudini senza tempo, buchi neri di angoscia innominabile, stelle lontanissime, forse già spente da milioni di anni, mentre la loro eco si diffonde ancora per l’eternità e scolpisce ricordi ed illusioni sulla retina dei miei occhi. In questi anni dalla mia partenza da Buru Buru ho visto tutto e niente, ma soprattutto ho capito quanto la fuga sia impossibile, se porti la tua prigione con te. Ho avuto una band, ho fatto teatro, alcuni dei miei clienti mi hanno lasciato o sono falliti, la Roma stenta, il Sindaco Demente Letizia stava per cadere, poi viene ripescato con uno scandalo trascendentale, e tutto si risolve con il suo contrario – il trasalire di un Tizio, come raccontava il famoso poeta castellano Franco Minucci, migliaia di anni fa. Non c’è redenzione possibile, non ho ancora trovato una via d’uscita. Ed allora è stato chiaro – devo tornare. Casa non è necessariamente dove sei stato felice, ma dove sei appartenuto. Ed io, evidentemente, appartengo ancora. Ma non alle persone. Molte sono cambiate, qui a Buru Buru, me ne accorgo subito. Più supposta gioventù, fisici asciutti e sguardi sfuggenti – chissà quanti di loro sono agenti segreti san marinari, sanmarinesi, russo-riminesi o persino croati. Mi sanno, ma io sono vigile e non mi perplendo. Essere perplessi è un lusso, devo fare attenzione. Fa un freddo catestematico, ancestrale, pleistocenico. Perle di lacrime ghiacciate scavano solchi rossi sul mio volto rivolto a Nord, verso la tundra romagnola, là dove la tigre delle nevi regna ancora sovrana sui villaggi celtici intorno a Sarsina, circondati da torme di Senoni e Lingoni furastici, primordiale annuncio del fatto che da lì, più avanti, caleranno i barbari più indefinibili, da Attila a Zeman, per assaltare Roma e ciò che poi significherà. Sono preda inerme del mulinare voluttuoso di milioni di anni di storia, ere selvagge ed eroiche, migliaia di generazioni senza nome, che pregarono gli Dei dal Monte Poggiolo e da San Leo – ed allora, come oggi, nessuno rispondeva. Non succede mai nulla qui. La cattiva fantascienza da gossip facilona e manipolatoria, da Erri De Luca a Ron Hubbard, passa dalla Palestina alle praterie americane e non si ferma mai in Europa. Le nostre religioni sono più umane e civili – basta leggere i capolavori di Luigi De Pascalis per saperlo. Una signorina mi chiama con un nome che conosco, che suppongo ora sia mio. Sono Tapiro-Che-Fugge, oppure Lardo-Che-Piove, ma mai e poi mai Paolo-Marcello-Fusi. Ma la signora ci tiene, mi guarda preoccupata. Dietro di lei le truppe del male si stagliano con le mani già sulla fondina. Uno di loro estrae quella che sembra una penna. Sono disorientato. “Vengo da un mondo vecchio di milioni di anni, non capisco la vostra scienza”, dico. Ridono. Niente cena, sono arrivato troppo tardi. Ho sempre la mia stessa cella, la 314, eccomi al caldo ed al sicuro. Il mio ritorno a Buru Buru non ha nulla di spettacolare, tutti sembrano tesi ad evitare pasticci, a farmi stare tranquillo. Sorrido allo specchio. Mio Dio, quanto sono invecchiato in queste ere geologiche. Sono pallido. Mi fa male un calcagno. Ma non c’è tempo, davvero non c’è tempo. Devo devo devo. Subito. Mi trema la mano, sussulto, palpito, vacillo. Subito, subito, immantinente, senza perdere tempo. Il corridoio è vuoto, sembra, ma tanto non ho né il tempo né l’energia per controllare. Ecco l’ascensore, vuoto. Entro, la solita musichetta, una versione orchestrale e melensa dei Def Leppard. Bene. Schiaccio il tasto numero 4. Lo faccio trattenendo il fiato, esercitando una pressione decisa sul centro del tasto. Non accade nulla. Nulla di nulla, l’ascensore resta lì. I Def Leppard lasciano il posto a Peppino Di Capri. Respiro. Respiro ancora. Esco. Non c’è nessuno. Prendo le scale e salgo correndo fino alla porta. Chiusa. Bentornato, Grande Capo Polpettone-Che-Grida, bentornato a casa. Si ricomincia. Augh.

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