Tra il 1935 ed il 1936 Bertrand Russell, nell’ambito dei lavori di due congressi di filosofia scientifica ed empirismo logico, tra Parigi e l’America, tentò di compiere un atto disperato quanto coraggioso. Si era accorto che ogni disciplina scientifica ed umanistica, nel corso della sua vita (era nato nel 1872) aveva via via sviluppato una propria terminologia specifica e che per concetti semplici, in uso in discipline diverse, esistevano oramai parole diverse che rendevano non più disponibili le conquiste di una scienza per le altre. Russell cercò di convincere la comunità scientifica e filosofica internazionale a rinunciare a questa diversità ed a trovare termini concordati che descrivessero in qualunque disciplina sempre esattamente la stessa cosa. Il suo fallimento fu il fallimento di un atteggiamento deterministico allo sviluppo scientifico: oramai cose che sono solo apparentemente simili ricevono nomi diversi, perché ognuno di quei nomi indica alcune caratteristiche specifiche ed inconfondibili del concetto o dell’oggetto visti in quella prospettiva. La sedia è un oggetto per sedersi, ma anche un manufatto architettonico, un concetto filosofico, un’opera d’arte (o il suo contrario), un insieme di neutroni, di materie, di interconnessioni, l’espressione di una cultura, un suono, un colore, un odore. Da quel momento in poi la specializzazione ha cancellato per sempre l’immediatezza propria della filosofia degli antichi, e discipline apparentemente simili (come la filosofia del linguaggio, la filosofia politica etc.) hanno aperto strade diversissime e che vanno in direzioni le più svariate, finché il termine stesso di filosofia, usato a lungo come ancora per evitare che la nave venga strappata al molo dai marosi, si è rarefatto ed è entrato in crisi. Pochi giorni fa, considerando una scenografia insieme a Roberto Piraino e mia figlia Valentina, ho cercato di esprimere la mia incapacità di “vedere” il contesto del disegno di un palco, del suo bisogno, del suo messaggio. Non ci sono riuscito, e Roberto mi ha guardato un po’ sconcertato come se fossi un eskimo in Mali che chiede la direzione per il Polo. Lui è un architetto, ho pensato, ed evidentemente vede delle cose che non vedo – ed in effetti sia lui che Valentina mi hanno dato preziosi consigli. Ma mi sono accorto che entrambi hanno risolto il mio dubbio in modo assolutamente naturale: guardano, ergo percepiscono. L’assonanza, il “questo mi ricorda quello”, che in musica è quasi un’ossessione, sembra essere irrilevante in altre discipline. La ricerca del “questo non l’ha fatto mai nessuno prima di oggi” è da decadi ridicola, lo so, ed anche la citazione è divenuta parte dell’arte che si ripete e ci ripete, in un numero infinito di quasi-copie, in un’epoca in cui la riproducibilità ha cancellato l’esclusività dell’arte. E del resto, come diceva non ricordo più chi, il pubblico in sala non applaude un’esecuzione di un brano, ma se stesso per averlo riconosciuto. Una volta Lucio Dalla, in un concerto cui stavo assistendo, asserì che ognuno ha in se almeno una canzone, una poesia, un disegno che lo corrispondono e che appartengono all’umanità come traccia del suo passaggio. Il solito: l’essere umano viene tirato contemporaneamente da due forze uguali ed opposte – il bisogno di appartenere ad una comunità riconoscibile ed identificabile, ed il bisogno di unicità. Sciacquettando di qua e di là le mie membra in questo ruscello, ho sempre cercato di raggiungere una distanza prospettica sufficiente per capire le singole parti di un tutto. Ho troppo tempo libero e dovrei invece spazzare più spesso in cucina? Eppure credo che sia necessario, metodologicamente, per chiunque, prima di tutto per capire la fenomenologia di se stessi e dei propri simili. Dire che la paura e la pigrizia sono le forze che muovono il mondo e da cui ogni altra cosa discende è vero, ma non sufficiente. Proprio questo cerco nel teatro che adoro: qualcuno che risolva il problema posto da Bertrand Russell percorrendo la strada opposta, non cercando parole che accomunino, ma costruendo sensazioni in cui il detto e lo scritto, insomma ognuno dei cinque sensi, giunga ad un risultato univoco seguendo la strada della percezione non mediata. E sapete come chiamerei questa cosa, che in diversi anni ho visto creare da Carlotta Piraino, da Alice Conti, da Andrea Cosentino, da Fabio Massimo Franceschelli, da Emanuela Cocco e Claudio Di Loreto, da Irene Serini, da Maurizio Zacchigna, da Alexander Seibt, da Samuel Schwarz, da Claudia Kraja Basrawi e da tanti altri? La chiamerei: amore. Perché l’amore è l’unica cosa che non è parole, ma percezione pura.

Lascia un commento