Ho finalmente visto la nuova versione di “Golden He”, il lavoro di Carlotta Piraino con Fabrizio Bordignon e la regia di Federico Vigorito. Parto dall’unico elemento che mi ha creato difficoltà: l’assenza di cornice e di contestualizzazione – mancando il filmato finale che spiegava i dettagli chiave storici del lavoro, molto era lasciato all’immaginazione e, in un Paese come l’Italia in cui la stragrande maggioranza dei cittadini non sarebbe in grado di situare temporalmente i Giochi Olimpici di Berlino, la Notte dei Cristalli e il Congresso della Gioventù Hitleriana di Norimberga, alcuni momenti dello spettacolo risultano di difficile decodificazione. Ma questo è a mio parere un prezzo accettabile per ottenere in cambio alcuni parossismi sconvolgenti, vere sequenze capolavoro, in cui la violenza dell’atto scaturisce da un non detto che rimbomba come la tromba del Giudizio Universale. Ancora una volta, il miracolo del teatro di Carlotta Piraino consiste nel dire una cosa senza dirla mai, costruendone e mettendone in azione le naturali interconnessioni. Se nelle prime sequenze la ragazzina viziata e superficiale (che probabilmente Helene Meyer è veramente stata) emerge in tutta la sua squittente arroganza, poco più avanti lo scontro tra l’immagine che lei ha di se stessa e quella che l’ostracismo di cui viene fatta oggetto gli fa rimbalzare contro creano una discrasia psicotica, una violenza soffocata, una rabbia ingestibile – ed in quel momento Carlotta Piraino, con una prestazione attoriale fantastica, diventa il simbolo tragico di un’intera generazione che, cresciuta nella certezza tipica dell’aristocrazia borghese, viene buzzatianamente travolta dall’impeto della follia storica. Fabrizio Bordignon, nella sua lenta riconquista del suo essere maschile, non solo è credibile, ma mette in scena in modo straordinario la morbida sessualità della classe dirigente nazionalsocialista, che si attizza con la veemenza ed il potere, non con l’erotismo. In “Golden He” l’erotismo diventa un tabù impossibile da vivere, ed una delle chiavi nel fallimento del progetto di Hitler di incrementare il medagliere richiamando in patria la “vecchia” schermitrice e costringendo un mediocre saltatore in alto a gareggiare come donna. Ma non siamo in un lavoro di Pasolini, l’eros non viene mai messo in scena, non ce n’è bisogno: qui la chiave di tutto è che l’intera socializzazione viene costretta in un ambito fortemente ideologizzato che la annulla. La sessualità e l’amicizia, poi persino il cameratismo tra sportivi divengono una comunione senza controllo, qualcosa che il regime, tra quei due mostri, non vuole che avvenga: quindi un avversario da battere. L’intero dramma è quello di una comunione negata, impossibile, pericolosa, in cui essere compagne di stanza, prima ancora della scoperta della sessualità, diventa quasi impossibile, una tortura per entrambe. Ma questo fino al momento in cui Helene e Dora/Heinrich scavalcano i divieti incrociati perché si riconoscono come vittime e solidarizzano in quanto tali. Dora va a vedere le gare di Helene, mostrando affettività in un modo che ovviamente sorprende Helene e la “vede” in ciò che per lei è più importante. In quel momento i due personaggi principali divengono uno – non solo perché si ubriacano insieme, dormono nello stesso e letto e sparano una cannonata pazzesca con il monologo brechtiano finale (una riduzione del famoso discorso di Adolf Hitler alla Gioventù Hitleriana del 1938 intitolato “Il Trionfo della Volontà”) fino a frastornare chi guarda: divengono uno perché la loro diversità, che li ha fatti scacciare dal corpus della gioventù ariana, cancella la loro distanza. Quanto al monologo finale, che a mio parere è il momento più bello, intenso e spaventoso dell’intero lavoro: la velocità dell’azione è tale da fare letteralmente paura. Dora ed Helene divengono improvvisamente l’orrore di ciò che sta per scaricarsi come un’onda di lava sull’Europa e che cancellerà cultura, pace e mollezza nell’olocausto ed in una guerra sanguinosa. La scenografia dell’opera è un altro successo: grigio caserma, lenzuoli militari, stanza misurata in filo spinato, ma completamente trasparente. E di converso due giovani atleti, con le tute di allora, i colori rossoneri del nazionalsocialismo, le acconciature e la prorompente vitalità di allora, il grido di un’umanità che ha sete di appartenenza e di gloria – un binomio impossibile, che la distruggerà. E qui rivedo la Carlotta che ho sempre adorato, capace di mostrare che senza affetto, senza adesione, l’appartenenza non esiste o è suicida. Non esiste gloria nell’appartenenza, non esistono le virtù militari, non esistono quelle razziali, di ceto, non esiste nulla di tutto ciò. L’essere umano, senza affetto, è bestia, ed appartiene solo al gregge. Da quando vedo i lavori di Piraino il grido è sempre questo: non siamo capaci di volere bene a noi stessi, non siamo capaci di voler bene a nessuno. Lottiamo per questo che, soprattutto politicamente, è il primo traguardo per resuscitare la più grande vittima di 150 anni di follia bismarckiana: l’umanità. E vale per tutti, me compreso, perché “Golden He” va visto come terapia per tutti i capelloni degli anni 70 che fin troppo presto si sono arresi. E detto tra parentesi: secondo me Federico Vigorito è un grande regista, così come Carlotta e Fabrizio (ma lo ripeto tutte le volte) sono dei grandissimi attori.

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