Domani mattina, 22 anni fa, moriva a Lampedusa Domenico Modugno, il primo grande cantautore della musica italiana. Un anno prima che nascessi io aveva già scritto “Nel blu dipinto di blu”, che è tuttora la canzone italiana più famosa al mondo, e che gli fece vincere il Festival di Sanremo, al quale partecipò come unico cantautore e con alle spalle una storia di interventi durissimi della censura sui suoi testi. Dopo di allora ha scritto grandissime canzoni, ha girato decine di film, ha cantato sui palchi di tutto il mondo, è stato un parlamentare del Partito Radicale tra i più impegnati in difesa dei portatori di handicap, culminata con la battaglia del disumano manicomio di Agrigento, vinta nel 1988, quattro anni dopo che un ictus pareva avergli troncato la carriera. Ma della vita di Mimmo Modugno è facile sapere tutto, era una persona trasparente, impegnata, appassionata, sfrontata, controversa, con una voglia di vivere trascinante. Non cantava. Come Gaber, lui era. Lui diceva, gridava, smaniava, cantava anche, ma era. Scriveva ad orecchio, le sue 230 canzoni cominciano quasi tutte in LA minore o in DO, i suoi giri non sono complessi, ma inimitabili, perché chiunque interpretasse le sue musiche, doveva battersi contro una fisicità esuberante che copriva tutto, persino la splendida voce che Domenico Modugno innegabilmente aveva. Modugno è stato l’unico a rendere mondiale l’armonia del Sud italiano, farla comprendere ed amare in ogni angolo della terra, cantando di una malinconia struggente, di una solitudine invincibile, di un amore per l’amore, unico rimedio per questa malattia dell’anima. Si dice che fosse uno “sciupafemmine”, ma non me ne importa nulla. Non ero sua moglie. Lo ascolto sempre, quando mi dimentico di essere rena di questa rena, di essere acqua, grasso e ossa di una cultura millenaria trascinata nel fango da una modernità oscena e che rifiuto per come ha distrutto la nostra società, la nostra capacità di vivere. Mimmo era un “gigione”, un simpatico farabutto, un dilettante di immenso talento – insomma un italiano. Io, che mi sento spesso tutt’altro, con lui ritrovo l’orgoglio di questa mia amara terra, da cui oggi, di nuovo, bisogna scappare, perché nega a ciascuno la possibilità di essere felice. Ma Domenico Modugno, come Giorgio Gaber, Sergio Endrigo, Tony Cucchiara e pochissimi altri, bisogna portarli sempre con sé, per non dimenticare mai chi siamo. 22 anni non sono nulla. Ti penso ancora.

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