Aggirandomi con Francesco Ciccone per i pertugi nascosti tra la Via Ostiense e la Garbatella, siamo finiti in un bugigattolo in Via Pigafetta, e lì abbiamo trovato, sotto un cumulo di macerie abbandonate ai tempi della prima rivoluzione industriale, un localino chiamato Spazio Armonico. Una stanza, nulla più, in cui si cerca di ottenere la torrefazione del cervello di chi ci si trova portando in pochi secondi la temperatura all’ebollizione del magma corporeo. Scherzi a parte, lì suonavano Marcello De Dominicis e Simone Sabatino, due amici conosciuti al Circolo H di Gianluca Decinti. Ebbene, a me piace il senso dell’etnomusicologia, ovvero, la disciplina che cerca di salvare le musiche popolari, spesso tramandate solo oralmente, che afferiscono alle generazioni passate, e credo che Marcello e Simone, in parte, abbiano tentato una cosa simile, ricostruendo il percorso musicale, politico e poetico di uno dei massimo esponenti della musica folk americana degli anni 60, lo straordinario e filosofico Phil Ochs. In un’epoca in cui si è riscoperto Nick Drake, e dopo che cantautori come Billy Bragg hanno ottenuto il riconoscimento che meritano, Phil Ochs, che si trova alle origini del dylanismo (e lo precede), e che poi ne diverge per maggiore coerenza e politicizzazione, è invece rimasto in qualche modo chiuso nel suo musicare la cronaca politica del tempo. Già, così pensavo, ma mi sbagliavo. Prima di tutto non sapevo nulla, prima di ieri sera, della caratura tecnica ed artistica di Simone e Marcello. Non hanno l’aspetto delle anime perdute del rock, e ieri ho capito perché: perché vengono da tutta un’altra era, tutta un’altra direzione, ovvero da quel folk-rock che ho tanto amato per anni e poi ho colpevolmente dimenticato, anche perché non ne nascono nuovi epigoni, ed Adam Green (che pure mi è piaciuto per una stagione) ne è solo una caricatura piccolo borghese. Insomma, anche se all’inizio Marcello, forse anche per timidezza, una timidezza che voleva celare un entusiasmo intatto da adolescente che scopre la musica della sua vita, ha cercato di essere didascalico. Ho chiuso gli occhi durante tutto il concerto. Quando hanno attaccato “I ain’t marching anymore” il cuore mi ha catapultato nel vivido senso di calore, nel profumo, nei colori di quegli autunni di amore e scoperta, di passione politica ed indignazione umana – quando imparammo ad amare l’America ed a disprezzare ed avere paura degli Americani, quando “la mia America e la sua diventate nella via la nostra città tanto triste” era una nostalgia che toccavi, una nostalgia per qualcosa che non avevi vissuto mai. Il sogni di mio padre perduto per la California mentre tutto sta accadendo – tutto ciò per cui avesse un senso sognare un’umanità diversa. Marcello e Simone sono quella umanità, la loro passione è il miracolo contenuto in un bozzolo spazio temporale, è un dispiegamento di forze della passione e di un umanesimo illuminista che si fa rabbia, ferocia, determinazione, sangue. Le canzoni di Ochs diventano la vita di due ragazzini, non importa se stempiati, non importa quanto stiamo sudando tutti. Due ragazzini che digrignano i denti di fronte alla cattiveria, all’esclusione, e sorridono felici alla vita che ci corre incontro. “Changes” mi ha fatto piangere, non sapevo che fosse di Phil Ochs, me la ricordavo in una struggente versione di Gene Clark (i Byrds, Marcello, i Byrds!!!) e della sua Carla Olson, e sono tornato ad allora, e miodio cosavidevodire, come si fa a spiegare, a raccontare, a rendere vivo ciò che si teme sia morto? La risposta non è solo nel vento, come cantava quell’opportunista di Duluth (che sfruttò l’affetto e l’aiuto sia di Phil Ochs sia di Joan Baez per divenire ciò che poi è diventato), la risposta è nelle canzoni di Marcello e Simone, nella loro pulizia, nella loro determinazione. Ed ora sogno, sogno questi due ragazzini eterni, all’angolo della piazza in cui la polizia ed i dimostranti si scontrano in un rituale antico ed oggi oramai desemantizzato, che con la musica e le parole di Phil Ochs restituiscono un senso, una direzione ed una speranza a chi l’ha persa. Dicono che continueranno, che forse ne faranno un documentario. Sono contento. Ma Marcello, non dimenticare Giorgio Gaber: “c’è solo la strada in cui puoi tornare, la strada è l’unica salvezza”. Siete straordinari, il vostro trio (Simone + Marcello + Phil) devono sentirlo tutti, a tutto volume, per coprire il fastidio del renzismo, del nazigrillismo, del salvinismo, di tutto ciò che di sporco e triste ha creduto di poter cancellare l’anima ruvida e poetica che pulsa sotto la cenere, gli anni, ed il grasso con cui abbiamo coperto (male) le ferite. Grazie, dal mio bimbo, che aveva bisogno della vostra potente medicina.

Lascia un commento