Tutte le volte che veniamo a suonare a Bologna da Stefano Baratti, la notte che segue ho dei sogni terribili. Dopo che io e Stefano ci siamo abbracciati ripetutamente (nella realtà, badate), e poi Marinella Galletti, e poi i fratelli di sempre, Olga e Gianluigi, arrivo in albergo e penso che era una serata meravigliosa e che (porcaccia miseria) devo ripartire. Ci sono amori violenti, nella vita, che strapazzano, spesso deludono e poi lasciano come svuotati – e poi ci sono questi quattro amici di lacrima e coraggio, di cui senti le parole nella testa la notte, quando sei più vulnerabile ed insicuro, che ti accompagnano sempre, non ti deludono mai, che riempiono il cuore e la vita, di cui avresti bisogno nella quotidianità più efferata ed invece hai la possibilità di vedere e godere solo quelle due volte all’anno che si passa di qua, e ti sembra di non avere avuto tempo, di non avere avuto modo, di essere stato tu, una volta in più, deludente. Ti ricordi, Carlotta, quando facemmo qui “Primo Volo”? Non fu forse la serata più bella, quella in cui capimmo quanto ci fosse di bello in quel lavoro, in cui forse per l’unica volta “capii i quadri, i soprammobili ed i suoi” e ci sentimmo appagati? Ed ancora una volta ne fate le spese voi, Emanuele, Leonardo, Michelangelo e Matteo, perché alla fine sono così isterico e furioso da diventare inutilmente antipatico. Scommetto che non se ne capisce nulla, di ciò che scrivo. Perché sono le 7 ed ho avuto una notte di sogni terribili, appunto. L’Estate Infinita è un lavoro pieno di emozione, rabbia, paura e speranza, nel quale investiamo tantissimo affetto. Poi suoniamo qui al Parco dei giardini Ca’ buia du Bologna e questi quattro amici, in due ore, ci restituiscono talmente tanta passione, veemenza, intelligenza e sardonica bellezza da restare scossi fin nelle sinapsi più recondite, quelle che altrimenti si emozionano solo per cose grosse, come le tagliatelle che ci regalano ogni volta Stefano e compagni (oddio, si può usare questa parola?). Nel sogno Stefano, Gianluigi ed io sediamo in un’aula di Firenze ed ascoltiamo un pretino arrogante e furbino, Giorgio La Pira, raccontarci di come cambierà Firenze dopo le elezioni del ’51. Gianluigi sbuffa: “Ma secondo i Patti Lateranensi questo non doveva restare missionario in Africa?” Stefano sogghigna: “Può andare peggio. Pensa se un giorno uno di questi pretini, oltre a fare il Sindaco di Firenze ed il dirigente dell’estremismo cattolico si mette in testa di fare il demagogo e sostituirsi al Duce…” Naturalmente l’immagine di Matteo Renzi incombe, io vomito. Leonardo suona l’assolo di “Woodstock”, tutti piangiamo, i corpi belli ed assolati dei giovani di quei giorni – noi – si asciugano nella cartapecora di un Paese avvizzito ed imbarbarito, nella rabbia nascosta dal grasso, dalla canuzie, dal sorriso triste e beffardo, dalla smorfia (dice Gaber) costruita in una vita. Non avete capito. Michela e Sara, a fine concerto, mi guardano con la tenerezza condiscendente con cui si guarda un bimbo caduto dalla bicicletta e mi ripongono gli oggetti al sicuro dalla mia maldestra foga. Con Stefano mangio una meringa deliziosa. Dentro di me un oceano. L’ho aspettata tanto, questa notte insieme a Bologna, ed ora è già passata. Devo andare. Invece voglio restare qui con loro, non ho voglia di andare a casa. Perché Olga, Gianluigi, Marinella, Stefano, il Parco di Corticella sono la parte migliore e pulita della mia infingarda insicurezza, della mia voglia di vivere, della mia felicità. Sono lo scrigno in cui si ripongono i sogni ed i gioielli quando si va a dormire. Non vi ringrazierò mai abbastanza. Come capite, stanotte è stato bellissimo e terribile, come sempre. Il concerto é volato in tre minuti di passione. Poi voi. Vi voglio bene. POST SCRIPTUM: tutto questo delirio grazie al pubblico di Bologna, ma soprattutto alle tagliatelle. Non vi dico cosa ci mettono dentro, ma l’effetto è una mitragliata secca sulle arepe frontali. Senza anestesia.

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