– Con la complicità di tre portantini sono fuggito nottetempo dall’Ospedale e sono andato a vedere il reading finale del corso tenuto per un anno da Cristina Aubry ed Emanuela Cocco – ed ho fatto bene. I testi li avevo già sentiti quasi tutti durante le lunghe settimane di preparazione. Tutti testi scritti da Cinzia Iacono, Susanna Scibelli, etc etc etc. – ovvero dalle studentesse e studenti del corso stesso. Beh, non ero assolutamente preparato a ciò che avrei visto stasera. A parte la cornice teatrale, le pause, i collegamenti, le scene e le musiche scelte con una grande sensibilità e professionalità, l’azione sul palco è stata non solo tecnicamente perfetta, ma piena di un’emozione rigogliosa e non patetica, di un senso della vita montante e in piena – ed infatti uno dei temi più ricorrenti é stato il mare: quello del medico che ha scelto di morire affogato ed ascolta con serenità gli sforzi inani compiuti per salvarlo, quello inscatolato e proibito della monaca, quello minaccioso come l’olio della cittadina e del suo porto distrutti da una guerra totale, quello odiato della pozzanghera che uccide con il foulard di seta i sogni di conquista di un uomo sposato, quello di tristezza della favorita dimenticata, quello del mare onnipresente del pezzo più sorprendente della serata, a mio parere, scritto da Ines, su cui ritornerò. Sotto la cornice di rosso, nero, canzoni (anni ’60, scelte con malinconica perfidia a farci ricordare le estati spensierate dell’infanzia e delle sue promesse non mantenute), il cerchio avvincente del destino di Annabella e di sua sorella, stupida e vacua la prima, incattivita dal dolore e poi ingentilita dal rimpianto la seconda – eppure così simili, così ingiustamente sconfitte di fronte alla maschilità volgare della piccola borghesia del dopoboom. La penna scaltra, intensa, mordace e sentimentale di Cinzia è essenziale e taglia come un coltello dove fà più male – dove le immagini in bianco e nero dei film del neorealismo diventano il destino odioso dei personaggi dopo che la parola fine ha chiuso il loro epos e perpetuato la loro pena. Memorabile il racconto del cecchino di Sarajevo, un’ode alla cattiveria, uno sguardo lucido e spassionato sulle verità di un assassino, senza una sola parola di troppo, nessun cedimento al cattivo gusto o alla ridondanza retorica, tutto ritmo e orrore. Ma le lacrime, le mie, sono venute quando Ines, alla fine del suo pezzo struggente sulla studentessa modello che tradisce il segreto della mamma del compagno uccisa in fabbrica al regista televisivo, torna in scena a raccogliere il cappello. Il cappello dimenticato nell’aula della Preside. Che attese l’amore tutta la vita e non venne mai. Ines, cappello in mano, smette di sorridere, si gira, due passi, si gira ancora. In quel gesto tenero e corrucciato la malinconia della nostra generazione, lo sforzo di compiere un movimento all’apparenza semplice senza essere tramutati in sale come aveva minacciato il Dio violento dei cattolici. Guardarsi indietro, rivedersi, riconoscersi, salutarsi, prendere congedo. Oggi finisce il sogno della nostra infanzia. Grazie Ines, per le lacrime, per la forza del gesto, grazie a voi tutte (e tutti) per la pienezza di vita, di calore, di amarezza, di coscienza. Essere persone comuni non vuol dire essere Fantozzi, ma essere monumenti al dolore e alla gioia, unici come ci fu promesso, irripetibili, con qualcosa che dovevate dirci, che ci avete detto. Dopo tanto teatro lezioso e autoreferenziale, cara Cri, cara Manu, finalmente voi avete dato una voce a dei cuori che hanno qualcosa da dire e la violenza primordiale necessaria per farlo vincendo ritrosie e paure.

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