– A causa della mia malattia non sono potuto andare alla presentazione del libro, ed ora penso che sia stato meglio così. Ma stamattina, avendo sfidato la proibizione medica ed essendomi concesso una passeggiata nello splendido sole primaverile, sono andato in libreria, ho comprato “Prima che la notte” di Michele Gambino e Claudio Fava e – come vedete – l’ho letto tutto d’un fiato. Michele è un uomo difficilissimo, tormentato, una delle persone che stimo di più ma anche da cui a volte mi sono nascosto, perché occupa tantissimo spazio, dev’essere sempre in primo piano ed ha sanzionato per anni la distanza fra lui e chiunque altro con la massima: “Non hai idea di chi mi sia messo contro io”. Leggendo questo libro finalmente lo si indovina, lo si capisce. Michele, come Claudio Fava, si sente allo stesso tempo colpevole di essere sopravvissuto al grande giornalista Pippo Fava, ucciso barbaramente il 5 gennaio 1984, ed anche colpevole di non essere stato grande come lui nel suo modo libero e cosciente di sfidare la morte. Una morte che, descritta finalmente dai due colleghi in modo letterario e preciso, fà un orrore ed una paura che, quando lavoravo con Michele, non potevo capire. Questo libro, che parla di mafia solo a lato, e per il resto è un atto di amore filiale di due ragazzi per il padre che se ne è andato senza (poter) spiegare perché, dice sullo schifo, la putrescenza, il dolore, il marcio profondo della mafia molto di più di tantissime cose che ho visto in una vita da lettore assatanato e giornalista interessato. Per me, ragazzino di una Roma bracalona, allegra e ridicolmente ideologizzata, poi trasferito in Svizzera per trovare lavoro, i “cattivi” erano persone senza volto, le vittime nomi su una lista. Per Michele e Claudio invece si trattava quasi sempre di persone che avevano incontrato sulla loro strada, non foss’altro come clienti della stessa trattoria. Per questo, ora che ho capito, sono rimasto così sconvolto dal gesto compiuto da Claudio Fava in campagna elettorale: andare ad un dibattito televisivo nelle TV di Cianci Sanfilippo… Per questo, ora che ho capito, so perché Michele – proprio lui che ha sempre fatto stragi di ragazze – è rimasto solo. Nella precisissima autocritica compiuta dai due ragazzi de “I Siciliani” (e soprattutto in quella di Michele) c’è una dose di eroismo vero, umano, cosciente, civile, adulto, di cui avremmo tutti avuto bisogno nel 1994, quando seguimmo come pecoroni l’inchiesta Mani Pulite e non capimmo che stavamo facendo il gioco di una parte politica che avrebbe annientato l’Italia che conoscevamo non nella corruzione, ma nella sua capacità di indignarsi. Michele lo dice: eravamo convinti che la rivoluzione stesse iniziando. Chi, leggendo “I Siciliani” e poi “Avvenimenti” ci ha creduto, ci si è rotto le corna. Chi, come Riccardo Orioles, troppo avvitato su se stesso per fare un salto al di là dell’ideologia da operetta che giustifica le sue tenere (ma poi irritanti) timidezze e debolezze, ci è affogato dentro. Claudio Fava lo scrive bene: non eravamo amici, eravamo i figli di Pippo. Quando lui morì, dovettimo cercare di divenire un gruppo. Una cosa che non riuscì mai e che negli anni ha rovinato tanti rapporti umani, purtroppo. La frase più dolorosa e vera la dice Michele: comincio a sorprendermi a temere che Pippo sia morto per nulla. Eppure esattamente in questo anelito all’immortalità sta il difetto. No, Pippo Fava è vissuto pienamente fino alla fine, godendosi la vita. Noi no. La nostra vera colpa non è stata solo nel non aver capito prima che accadesse, nel non essere riusciti a trasmettere il messaggio o nel non aver vinto la guerra in suo nome. La nostra disfatta, semmai, è nel non aver veramente vissuto. Queste 100 paginette di autocoscienza mi hanno commosso fino alle lacrime. Mi viene in mente quella notte a Locarno in cui Micki venne a stanarmi da un giornalino di sottoprovincia e ad insegnarmi a prendermela con i pesci veramente grossi. Mi viene in mente il viso sfranto dal dolore di una Paola, di cui è meglio non parlare. Mi viene in mente quella cretina della mia moglie di allora – che poi giustamente di mestiere ha fatto l’esperta di logistica per il crimine organizzato e l’artista della plastilina – che appone la mia firma su un documento in cui a mio nome sconfessa l’articolo più importante che avessi scritto allora. E soprattutto quel veccio orso di Michele Gambino, che amo da sempre da lontano, e che avrei dovuto abbracciare con tutto il calore possibile molto più spesso, senza perdersi in spiegazioni. Lui mi ha insegnato, tra l’altro, che per essere un grand’uomo non bisogna smettere di essere uomo. Sarà il caso che cominciamo, magari partendo proprio da questo splendido libbricino.

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