Piove. Borbottando, quasi senza vento, in una campagna immobile, abbandonata dagli uccellini, in un silenzio salvifico. Seduto su una poltrona di vimini accolgo le gocce e sento la pelle riempirsi di elettricità. Ma sono stanco, stanchissimo, prostrato. Da un po’ di tempo, ogni mattina, dopo aver letto e risposto ai messaggi di amici e di lavoro, dopo aver controllato la contabilità, dopo aver fatto una passeggiata e letto i giornali, sento l’insopprimibile necessità di tornare a dormire. Le poche volte che cedo, la giornata viene ingoiata dal sonno, mi risveglio intontito, e comunque stanco, a pomeriggio inoltrato, con l’ansia di non aver fatto ciò che avrei dovuto e voluto. Ho improvvisato un rifugio per il computer. Io posso continuare a scrivere senza che si bagni, mentre io sono oramai slozzo (bellissima parola ticinese che significa fradicio, ma anche in senso traslato e morale) e senti finalmente, dopo mesi, dei brividi che assomigliano al freddo. Cercare di esprimere sé stessi, oggi, è una cosa che va fatta proteggendo, nascondendo, cifrando. Potrei citare Gaber, come sempre, ma so bene che molti di voi conoscono questa chiave segreta, non ce n’è bisogno. Bisogna nascondersi perché le cose complesse vengono travisate e non comprese – cosa che non è grave, ma irrilevante – ma generano sempre più violenza. La divisione in ceti non è più tanto basata sul denaro a disposizione, ma sull’intelligenza e la proprietà linguistica. L’analfabetismo funzionale ha contribuito seriamente a distruggere la società. Si aderisce ad una coppia o ad un gruppo sulla base di una bugia consolatoria. Crediamo entrambi a una minchiata, e lo sappiamo. Questo legame è più forte del sentimento, perché tra noi possiamo credere di essere anche quando l’evidenza è contraria. Le scosse di assestamento dei refoli di coscienza superstiti vengono tacciati di dinamiche bipolari, ambizione e profondità vengono bandite come malattie, la superficialità viene eletta a caratteristica fondamentale dell’amore, dell’amicizia, del vivere insieme. Allora devo nascondere i pensieri nella lunghezza, ed in altri temi, altrimenti mi scoprono. E voi che leggete fate lo stesso. Ricordo che pioveva. Ero sdraiato in un prato, alla fine del bosco che separa Kloten da Dietlikon, ed ero solo. Mia figlia Valentina, allora come adesso, ancora dormiva. Scrivevo mentalmente una canzone che poi ho perduto. Calmavo una rabbia cui non sapevo dare un nome, imploravo una vita, una nemesi, un temporale dell’anima che di lì a poco venne e spazzò via tutto. Ero stracolmo di energia, non riuscivo nemmeno ad impiegarla tutta. Avevo un disperato bisogno di amare: una vita, una prospettiva, una donna, un’ambizione, ed avevo Valentina, appunto, ma non sapevo come amarla senza danneggiarla. Cominciava a quei tempi (1988) il mio apprendistato, quello che non potrò concludere per mancanza di energia e di tempo a disposizione. Ed ora, sotto la pioggia, un anziano signore mi chiede se sono malinconico. Gli dico di no, che sono nostalgico. Di cosa? chiede. Per una volta voglio essere onesto: della mia solitudine di allora, ma soprattutto dell’energia oceanica, dell’uragano che mi urlava nel cuore e nelle orecchie, di quell’entusiasmo che, gonfiando il petto, trasformava la pioggia in un balsamo di eternità. Essere grandi vuol dire essere da soli. Valentina ed io, visto che mi assomiglia sempre di più. E vuol dire non cedere alle bugie pietose di chi ha bisogno di me. Gli ultimi sei anni sono stato debole ed ho accettato troppi compromessi. Resto debole, ma il resto scompare. Finalmente, dopo tanti anni, piove non solo fuori, ma soprattutto dentro di me. Amen.
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