Questo post mi è stato chiesto più di una volta, e da diverse persone, che facevano fatica a comprendere alcuni dei miei pipponi. L’ho scritto con ritardo, ma l’ho scritto, e riguarda la profonda differenza che intercorre tra ideologia ed estetica – due cose che, oggi, come molte altre, vengono volutamente confuse. Il termine ideologia è stato usato per la prima volta negli anni della Rivoluzione Francese, e si è poi sviluppato in seguito all’uso fattone da Napoleone e dai maggiori filosofi del XIX Secolo, da Carlo Cattaneo a Karl Marx, e successivamente consolidato (per ciò che so io, che so ben poco, quindi questa è una semplificazione) da Antonio Gramsci e Karl Mannheim. L’ideologia è quindi l’insieme dei dati che costituiscono una data visione del mondo, propria di una cultura, di un ceto, di un gruppo particolare, e che ha come scopo imprimere una direzione alle scelte decisive di chi comanda – del governo di uno Stato. Nel corso del Novecento, in Italia, si confrontarono diverse ideologie: a) quella monarchica classica, nata dalle idee di Bismarck e del Congresso di Vienna; b) quella della rivoluzione borghese e del liberalismo, nata con Locke, Rousseau e Voltaire; c) quella marxista, che poggia sull’ipotesi dell’emancipazione del proletariato; d) quella delle tirannie mistiche e pre-nazionalistiche, come il fascismo, il nazismo, il bolscevismo, la teocrazia; e) quella cristiana moderna, che è un po’ un miscuglio di tutte le altre, con un accento sul pragmatismo fideistico, ma che si distingue dalle ideologie tiranniche: il principio del libero arbitrio ed il rimando del giudizio ad un tribunale collocato in un’altra vita. L’estetica, che esisteva già, come termine, nell’antica Grecia, è l’insieme delle percezioni sul bello di un popolo, di una cultura, di un gruppo, di un’epoca. Il “bello”, a sua volta, è un concetto complesso, perché non deve necessariamente coincidere con “funzionale”, “efficiente”, mentre l’ideologia, che si prefigge di risolvere i problemi, invece ha quell’aspirazione indirimibile. Ma le due cose avanzano a braccetto. A partire da Immanuel Kant in poi, ognuna delle ideologie ha avuto una sua estetica (e forse anche una sua mistica): Adorno, Croce, Genette, Gentile, Hegel, Hitler, Mao, Nietzsche, Schopenhauer, Stalin, Todorov – ognuno con una propria ideologia, ma anche con una propria estetica. Faccio un esempio semplice. Secondo l’ideologia marxista, il comunismo si realizza quando la classe operaia, acquisiti gli strumenti di consapevolezza e preparazione necessaria, procede alla direzione del mondo in modo collettivista ed egalitario. Nella sua estetica, quindi, dire “operaio” è un complimento, invece dire “borghese” è un insulto. Ma questa non è ideologia, è estetica. Tutto ciò che è “politicamente corretto” o “scorretto”; è estetica, non ideologia. Vendere il patrimonio di CDP Cassa Depositi e Prestiti per ridurre in modo apparente il deficit congiunturale dello Stato perf peggiorarne la situazione strutturale, questa è una scelta ideologica. Giorgio Gaber lo aveva detto già nel 1976, con il suo monologo sul tennis: “Oggi al parlamento, una mozione, l’avversario si alza, e mette lì la sua, una differenza, leggerissima, e… tatatata bang! Dopodiché, tutti al tennis. Sì, giocano tutti al tennis, e qui mi incazzo. Perché gli piacciono a tutti le stesse cose, e i gusti sono tutto. C’è chi gioca a tennis, e c’è chi gioca a calcio, certo, la vera cortina di ferro, è lì, nei gusti. Le questioni ideologiche, roba da ridere, fra gusti uguali, i gusti, sono la vera sostanza politica (…) E il tennis avanza e non risparmia nessuno, e ora, in tutte le fabbriche ci sono i campi da tennis, e si capisce chiaramente che è la base che ha imposto i suoi gusti, praticamente la proletarizzazione. Ma perché non abbiamo imposto i nostri gusti? Ecco, Agnelli centravanti del Torino, e Andreotti al giro d’Italia, questa è la proletarizzazione”. Una contraddizione tra ideologia ed estetica che poi fisserà, quasi 30 anni più tardi, nella famosa canzone “Destra… sinistra”. Se l’ideologia dei Partiti Comunisti, per decenni, si è ispirata a Marx ed Engels, l’estetica imperante nei movimenti che si riconosco o riconoscevano nel marxismo è sempre stata il materialismo dialettico di Hegel, che marxista non è. Questo ha avuto diverse conseguenze anche sullo sviluppo delle scienze, specie quelle umanistiche: da un lato gli strutturalisti (come me), che credono che si possa descrivere un fenomeno (Karl Popper e la sua epistemologia su tutti, ma poi Lacan in psicologia, Genette e Barthes nella critica letteraria, Chomsky in linguistica, Lévi Strauss in antropologia, etc.), ma non interpretarlo, dall’altro i positivisti (e peggio ancora coloro che credono nel determinismo), che cercano di spacciare un’interpretazione (legittima) per una tesi scientifica. Sembra un mero elenco di parole difficili, ma vi assicuro che nascondono secoli di guerre di trincea tra gli intellettuali, i militari, gli economisti, i politici, gli imprenditori, i prelati. Guerre che si combattono proprio per poter evitare dibattiti ideologici, che sono molto più complessi ed hanno bisogno di un criterio di efficienza che all’estetica non compete. Questa stridente contraddizione si vede soprattutto nella questione legata agli sbarchi di migranti dal Nord Africa: esteticamente, non possiamo prenderli a fucilate. Ma dal momento che l’intero dibatto si svolge non a livello politico, non a livello ideologico, ma solamente a livello estetico, sparare su quella povera gente rimane un’opzione. L’intero equivoco musulmano si basa su questo, e sulla falsariga di questo moto estetico, tutti hanno seguito l’esempio. Gli Arabi hanno imparato l’arte della mistificazione dagli Stati Uniti, che storicamente – quando non vogliono più una cosa – cambiano il senso alla parola che la descrive: libertà, indipendenza, democrazia, e via di seguito. Da Kennedy in poi, il modo di dire le cose è divenuto più importante di ciò che farai. Una lezione imparata immediatamente dai teocrati musulmani, e poi applicata da diversi gruppi di potere. In Italia, Silvio Berlusconi ha basato tutta la sua parabola politica sull’usare le parole dando loro un significato sbagliato abbastanza a lungo per ottenerne una desemantizzazione. Oggi, in Italia, dire a qualcuno “comunista”, significa dirgli membro di un’opposizione politica che si basa sul rifiuto di alcune scelte politiche e sociali del governo – non importa nulla Karl Marx, Groucho Marx o Eddie Merckx, tanto per parafrasare Roberto Benigni. La lezione di Berlusconi l’hanno imparata tutti, e tutti la applicano: in Germania, in Spagna, in Francia, nel Regno Unito, ma persino in Cina, in Indonesia, nelle Filippine, in Sudafrica – ovunque. Tutti Paesi senza ideologia, senza linea per affrontare i problemi, ma solo con un’estetica, il cui obiettivo è giustificare un ritorno al Medioevo, in cui le classi dominanti sono tali per forza economica e militare e le cui scelte non sono negoziabili. Dopodiché arriva Beppe Grillo e rovescia furbescamente il tavolo, puntando (come Berlusconi e Renzi) tutto sullo story-telling e la desemantizzazione. Parole, ma anche fatti, solo che sono diversi da quanto annunciato. Come ne “la Fattoria degli Animali” di George Orwell. Oggi viviamo in un mondo in cui prevale un’estetica opposta a quella di Hegel. Si crede per fede, non si sa. Non si sa nulla. Non esistono più fonti credibili, quindi si accetta un concetto, un rimedio, una linea, una decisione, solo per fede – che è un atto più estetico che politico. Ma, sempre per motivi estetici, facciamo finta di credere ancora nell’illuminismo e nel materialismo dialettico. Il risultato è che non siamo capaci di prendere nessuna decisione, ed aspettiamo che siano le decisioni a prendere noi. A sberle, ovviamente, se avremo fortuna.

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