Pochi millimetri sotto questo post troverete un articolo che parla di una conferenza tenuta da Tullio De Mauro, che è il padre della sociolinguistica italiana, l’uomo che, insieme a Gaetano Berruto, ci ha restituito la consapevolezza di ciò che sia in realtà la lingua (le lingue) che usiamo ed in quale modo mai le sappiamo gestire. Non si tratta di un purista che implora l’uso di parole desuete, ma uno che sostiene la dinamica interna di una lingua che, quando trova una regola inutile o una parola inadeguata, le modifica o le cancella. Ma ciò che descrive oggi é un quadro differente: oltre il 70% della popolazione crede di parlare in italiano o in dialetto, ed invece non lo sa fare. Anche nel mondo della cultura ufficiale ci sono persone (che vanno in TV e scrivono sui giornali) che non sono in grado di spiegarsi compiutamente, che hanno difficoltà a capire ciò che dicono / scrivono gli altri e quindi ci rinunciano, che hanno perso il contatto con la spiegazione della complessità ma anche con la semplicità della ragione, quando essa viene applicata. Persone per le quali il twitter è il limite massimo concepibile di attenzione. Persone per le quali la rabbia, la frustrazione, la violenza, la paura e l’orrore sono giustificati tautologicamente dal fatto che si trovano in un mondo di cui non capiscono nulla, di cui credono di non poter capire nulla, cui viene insegnato che va bene così, che non serve capiscano, basta che si sfoghino. Non mi importa nulla se abbiamo creato delle generazioni di gente che non aderisce alla propria lingua ed alla propria cultura – quindi italiani mancati. Abbiamo creato delle generazioni di homo sapiens mancati, carne da cannone di una guerra sempre più vicina, esseri superflui, inutili, che vale la pena lasciare in vita solo perché, con il rito elettivo, giustificano la creazione di quella casta che dicono di odiare e segretamente e meschinamente venerano. Solo perché, con gli spiccioli che hanno in mano, comprano i prodotti ed i servizi di chi li comanda, convinti che troveranno la felicità. Ed intanto hanno perso tutti i valori associativi, non esistono più da tempo come popolo, ma iniziano ora a non esistere più come umanità – come dimostrano in modo differente ma convergente il renzismo, il berlusconismo, il salvinismo ed il nazigrillismo, ma anche le derive antiumanistiche proprie del resto del Pianeta. Senza lingua siamo solo bestie da macello. Ebbene, Tullio De Mauro ha fatto i conti. Ci siamo.
Firmato da Paolo Di Stefano su “Il Corriere della Sera” del 28 novembre 2011: “Se sette italiani su dieci non capiscono la lingua: De Mauro: cresce l’analfabetismo di ritorno – «Voi sapete che, quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto…». Così Luigi Settembrini ricordava quanto conti la lingua nell’identità e nella coesione di un popolo. Purtroppo, se oggi si dovesse giudicare dal livello di padronanza dell’italiano il grado di attaccamento alla nazione, saremmo davvero messi molto male. La salute della nostra lingua, infatti, sembra piuttosto allarmante, almeno a giudicare dai dati che Tullio De Mauro ha illustrato ieri a Firenze, durante un convegno del Consiglio regionale toscano intitolato «Leggere e sapere: la scuola degli Italiani». Tra i numeri evocati da De Mauro e fondati su ricerche internazionali, ce ne sono alcuni particolarmente impressionanti: per esempio, quel 71 per cento della popolazione italiana che si trova al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura di un testo di media difficoltà. Al che corrisponde un misero 20 per cento che possiede le competenze minime «per orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana». Basterebbero queste due percentuali per far scattare l’emergenza sociale. Perché di vera emergenza sociale si tratta, visto che il dominio della propria (sottolineato propria) lingua è un presupposto indispensabile per lo sviluppo culturale ed economico dell’individuo e della collettività. Tullio De Mauro, 79 anni, tra i massimi linguisti italiani è stato anche ministro dell’Istruzione. Fu lo stesso Tullio De Mauro quasi cinquant’anni fa, in un libro diventato un classico, Storia linguistica dell’Italia unita, a segnalare il contributo non solo della scuola ma anche della televisione nell’apprendimento di una lingua media che superasse la frammentazione dialettale. Si assisteva in quegli anni al declino del dialetto e contemporaneamente al trionfo di quell’italiano popolare unitario che avrebbe portato, secondo le previsioni dei linguisti, a un innalzamento delle conoscenze linguistiche in parallelo con il progresso economico, culturale e civile. Nel 1973, Pier Paolo Pasolini aprì una discussione: il tramonto del dialetto equivaleva per lui all’abbandono dell’età dell’innocenza e all’entrata nella civiltà dei consumi e nell’età della corruzione. Gli fu risposto che la conquista dell’italiano da parte delle classi subalterne, come si diceva allora, era piuttosto la premessa e la promessa della loro promozione sociale. Alberto Manzi, maestro elementare, condusse dal 1959 al 1968 la trasmissione televisiva «Non è mai troppo tardi». Il programma fu un formidabile strumento di aiuto alla lotta contro l’analfabetismo. Oggi, a quarant’anni da quelle accesissime polemiche tra apocalittici e integrati, tra nostalgici delle parlate locali e fautori delle magnifiche sorti e progressive, sembrano tutti sconfitti di fronte al pauroso ristagno economico, culturale e linguistico. L’allarme lanciato da De Mauro chiama in causa anche il nuovo governo, che finora, ha detto lo studioso, «sembra aver dimenticato l’istruzione». Istruzione e scuola sono i due concetti chiave. Se nel dopoguerra, fino agli anni Novanta, il livello di scolarità è cresciuto fino a una media di dodici anni di frequenza scolastica per ogni cittadino (nel ’51 eravamo a tre anni a testa), oggi si registra, con il record di abbandoni scolastici, un incremento pauroso del cosiddetto analfabetismo di ritorno, favorito anche dalla dipendenza televisiva e tecnologica. Non deve dunque stupire che il 33 per cento degli italiani, pur sapendo leggere, riesca a decifrare soltanto testi elementari, e che persista un 5 per cento incapace di decodificare qualsivoglia lettera e cifra. Del resto, pare che la conoscenza delle strutture grammaticali e sintattiche sia pressoché assente persino presso i nostri studenti universitari, che per quanto riguarda le competenze linguistiche si collocano ai gradini più bassi delle classifiche europee (come avviene per le nozioni matematiche). Non bisognerebbe mai dimenticare che la conoscenza della lingua madre è il fondamento per lo studio delle altre discipline scolastiche e delle altre lingue (inglese compreso), così come è alla base della capacità di orientarsi nella società e di farsi valere nel mondo del lavoro. Sembrano constatazione banali, ma non lo sono affatto in un contesto in cui l’insegnamento dell’italiano nelle scuole soccombe all’anglofilia diffusa e la lettura, sul piano sociale, è nettamente sacrificata rispetto all’approccio visivo, comportando vere mutazioni psichico-cognitive. Se ciò risulta vero, non è eccessivo affermare che l’emergenza culturale, nel nostro Paese, dovrebbe preoccupare almeno quanto quella economica.

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