Sono stato al Teatro della Visitazione, a Casal Bruciato, a vedere la première di “Hyde” con Fabrizio Bordignon e Carlotta Piraino, e ne scrivo per dirvi perché ho fatto bene ad andarci e, quindi, perché dovreste andarci anche voi. Ci sono andato, del resto, con Mersia, Stanislao e compagna, Barbara, ed alla fine ho avuto l’impressione che condividessimo l’essere contenti di esserci stati. Il testo, che ritengo essere la traduzione di Oreste e Gabriella Del Buono del 1952, è datato, lentissimo, pieno di parole desuete come “nequizia”, che hanno la capacità di affogare l’interesse del pubblico, così come la decisione di regia di introdurre un sospirone femminile (che dopo la seconda volta è prima ridicolo, poi solo fastidioso) per far capire che si stia cambiando prospettiva, livello narrativo, io narrante etc, come se fossimo ancora nel 1952 e il pubblico non capisse certe cose da se. In questo modo la storia, fin troppo nota, va avanti tra sbadigli e momenti di imbarazzo grave. A questo proposito vi invito caldamente a NON leggere le note di regia, che sono scritte in un pidgin a base italiana devastante e spiegano (se ho interpretato correttamente le frasi) che la prospettiva scelta dal regista, quella di Utterson, è in assoluto la più noiosa, giuggiolona e petulante di tutto il pezzo. Del fatto che Stevenson parli di bipolarismo molto prima che la psicanalisi ci arrivasse, non c’è nulla, perché l’accento è posto sul consumo di droga e di come cambino la personalità – una cosa di cui nel mondo contemporaneo, secondo il regista, evidentemente si è persa la nozione. Ma allora perché andarci? Perché sul palco si svolge una rappresentazione parallela, quella del rapporto dialettico tra Mary, Jekyll e Hyde, ovvero tra Piraino e Bordignon. Questa parte, che prende quota man mano che la parte didascalica ha già ammazzato lo spettatore più sprovveduto, rende l’ultima mezz’ora di “Hyde” meravigliosa, sorprendente, piena di dettagli minimi ed irrinunciabilmente importanti. La dicotomia Jekyll / Hyde viene resa, ufficialmente, con un gioco di specchi e con la camminata incerta di Jekyll opposta alla fisicità di Hyde. Ma Bordignon, trascinando Piraino, trasforma quel bipolarismo non solo in un’unità complessa, ma ce ne mostra alcune sfaccettature inattese: a) la crisi della figura dello scienziato borghese di fronte alle passioni, il che fa capire che Jekyll sia già Hyde nel momento in cui abbandona la scienza ufficiale, una crisi che viene fisicizzata con la rabbia sorda di Jekyll di fronte alla gioia liberata di Hyde. Dopo un po’ capisci che il mostro potrebbe essere Jekyll, non Hyde. Il testo dice il contrario, ma Bordignon è un miracolo di umanità completa e conturbante; b) la contiguità tra Jekyll e Mary prima dell’esplosione, quando l’immobilità epica dei loro ruoli, persino più vecchia del romanzo borghese, definisce la loro parentela nella rinuncia alle passioni, più che altro è una rinuncia all’intimità, che viene presentata non a caso con il nome di verità: Piraino è come sempre fantastica quando deve rappresentare questa contraddizione, momenti in cui la bugia ufficiale è molto più vera (e fisica) della verità condivisa da una società oramai morta e sepolta. In quel momento Bordignon e Piraino trascendono da “Hyde” e divengono un manifesto sull’impossibilità della passione senza consapevolezza, che riporta alla tragedia di “Hyde”, ma in chiave finalmente moderna e tuttora viva, pulsante; c) la rappresentazione tragica della sessualità come violenza psichica, come “dramma formativo”, come contestualizzazione della liberazione dal bene piccolo borghese (che assomiglia al male molto più dei demoni del cattolicesimo), si tinge di sangue, del rosso fuoco dei capelli di Mary, degli occhi altrimenti esangui di Bordignon. In questa esplosione viene coinvolta la scrittura (il diario di Mary), la droga, il rifiuto del perbenismo sottolineato dagli sguardi di Bordignon quando attesta l’omicidio appena compiuto (anche lì, purtroppo, la regia commette un’infrazione della continuity che spiazza per alcuni minuti, perché non è più chiaro dove ci si trovi esattamente nell’asse temporale interno alla narrazione). Eravamo alla première, Credo che ogni sera Carlotta e Fabrizio saranno più bravi, più forti, più invincibili. In questo senso “Hyde”, ovvero il loro duetto meraviglioso, prenderà finalmente il posto del “Jekyll” originale ed insegnerà (spero), a chi ha cercato di mettere in scena il lavoro ed alla fine diventa egli stesso scena dei propri limiti, che la mostruosità consiste veramente nel fatto che “l’essere umano vede solo ciò che gli interessa vedere” (parole messe in bocca a Utterson / Io Narrante / Narratore), mentre la vita è altrove. Come diceva Gaber, “la gente è di più”. Non importa quanto grossi siano i limiti dei personaggi messi in scena, Bordignon e Piraino li trasformano in un epos della contraddizione contemporanea in cui si vedono rapporti genitori / figli (il più interessante è quello mai esplicitato di Jekyll/Hyde con i suoi, dato che riconosce, capisce e condivide il dolore di Mary…) sanguinosi, una società soffocante, un’astoricismo della borghesia (che è un Dio che è morto, direbbe giustamente Guccini), il dolore delle nostre anime che, nei momenti più intensi, prendono parte per quella coppia impossibile e gli augurano, di cuore e commossi, di farcela.

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