Sono passati 50 anni dalla morte del Che. La sua icona, raffigurata nella famosa foto di Alberto Korda, è ciò che maggiormente vive di lui: un bell’uomo, dall’aspetto fiero, in divisa da guerrigliero. In questo modo, il Che è divenuto un simbolo del consumo quanto John Lennon e James Dean, e questo, certamente, non gli avrebbe fatto piacere – anche se ho il sospetto che, essendo estremamente gigione, ma anche capace di grande coerenza, gliene sarebbe fregato il giusto, cioè nulla. Non posseggo la statura per poter esprimere un giudizio storico su di lui, che è certamente figura estremamente controversa, ma vorrei porre la vostra attenzione su tre punti che mi sembrano ancora estremamente interessanti, 50 anni dopo la sua morte. Il primo punto: il Che non era un marxista, ma un cane sciolto che univa un’ammirazione parallela per Gandhi, Mao, Jung e Lumumba. Ciò mi fa pensare che non andasse poi tanto d’accordo con la svolta della rivoluzione cubana, che divenne succube (per pragmatismo) dell’Unione Sovietica. Qualora non lo sapeste, il Che rimproverava ai Paesi dell’Est Europa di essere “segretamente d’accordo” con gli Americani. Oggi sappiamo che era vero, che la Guerra Fredda fu in gran parte una messa in scena, ma allora certe frasi facevano scalpore e mettevano in crisi i militanti. Secondo punto: il Che non era un militare di formazione, ma un intellettuale ed un letterato, oltre che un medico. Eppure si dimostrò bravissimo come capo guerrigliero, ed era spietato, perché sapeva, per esperienza, che non puoi fidarti di nessuno, i tuoi ti saranno fedeli solo se ti temono – e ti temono solo se hai le mani lorde di sangue e sei inflessibile. Disprezzava profondamente Laurent Kabila (che è poi stato presidente del Congo in questo nuovo secolo), perché lo riteneva un corrotto pappamolla. In questo senso mi pare impossibile giudicare il Che con criteri quali “buono” o “cattivo”. La sua morte è il prezzo che era disposto a pagare di persona e l’ha pagato. Combatteva per un ideale, e non per il potere, e lo ha dimostrato lasciando L’Avana e crepando in una stupida e dimenticata foresta boliviana. Terzo punto: personaggio unico al mondo, per quanto io ne sappia, lui credeva solo ad una rivoluzione totale, su scala planetaria. Non so cosa pensasse di Castro e del Movimento del 26 luglio, specie dopo la vittoria, ma non gli bastava. Il fatto che sia andato a combattere in Congo dimostra che non fosse un patriota, ma un vero rivoluzionario globale: o liberiamo tutti, o non sarà libero nessuno. La sua analisi sull’imperialismo americano e su quello russo sono ancora oggi valide, ma allora erano difficili da far passare: o se di qua, o sei di là. Perciò mi fa imbestialire il fatto che in questa ricorrenza uno squallido e cinico travet di Barcellona dichiari l’indipendenza della Catalogna e menzioni il Che, come se fosse possibile tracciare una linea tra questi due percorsi, lontani anni luce tra loro. Vergogna. Ma soprattutto: basta! Sarebbe ora di cercare di capire cosa, di ciò che lui pensava veramente, fosse utile o inutile nel dibattito del suo tempo, ed in quello di oggi. Il Che meriterebbe finalmente rispetto, non venerazione o idolatria consumistica. Finire sulla maglietta di Manu Chao è un insulto che non può essere lavato, diventare un’immagine che fa concorrenza alla Marilyn Monroe di Andy Warhol è una cosa che fa piangere. Ernesto Che Guevara deve poter morire davvero, perché sia possibile farne rivivere non il fantasma, ma l’intelligenza e le opere – perché sono convinto che siano un pianeta quasi inesplorato e che potrebbe davvero aiutare a capire ciò che il mondo sta attraversando oggi, alla vigilia possibile della Terza Guerra Mondiale.

Lascia un commento