Lavorando per interminabili ore di notte, la percezione di noi stessi e della vita cambia. Si crede di scavare in sé stessi, ma in verità si spera di ingannare la realtà, come quando tieni il pane talmente tanto in bocca da tirarne fuori gli zuccheri. Non bevo alcool, e quindi per annegare i problemi ho solo la stanchezza. La benedetta stanchezza, che placa le persone tormentate e fa pensare loro che la soluzione sia semplice ed a portata di mano, basta avere abbastanza fifa da lasciar decidere per noi (al posto della nostra confusione e delle nostre inesauste contraddizioni) la paura, la pigrizia, o addirittura qualcun altro. Ieri sera sedevo in una stanza con una persona che per anni sosteneva si dovesse fare il contrario e poi, alla prova dei fatti, è crollata di fronte al peso dei piccoli grandi drammi che ci costruiamo in decenni di bugie raccontate a noi stessi, di mosse difensive, di gabbie costruite pensando che dentro ci si viva più sicuri. Non sto qui a dire che io sia diverso, ma solo a pensare che sia un peccato che le persone in cui credevi si rivelino nient’altro che una brutta copia della tua stessa fragilità. Oppure no, non è un peccato, è una consolazione. Non ho nulla da insegnare, non posso aiutare nessuno (specie una persona che ritengo più intelligente di me e che ha quasi la mia età), credere di dover (poter) guidare altre persone mi imbarazza e mi sembra ridicolo. Sono spettatore di me stesso nell’altro, cui voglio inutilmente bene, riconosco la natura della mia e sua sconfitta, e torno appunto a casa a lavorare, che è ciò che mi riesce bene. No, non per i risultati professionali, anche se mi fanno piacere. Perché adesso sono talmente stanco da aver cauterizzato le possibili emozioni ed essere pronto a tornare nel quotidiano, fantasma tra fantasmi, cisposo allegrone e tracotante narciso. Hasta la derrota, a menudo.

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