È proprio vero che la vita ci mette davanti al naso le cose di cui abbiamo bisogno, spesso prima ancora che ci accorgiamo di quanto le stessimo aspettando. Così oggi ho deciso di prendere una pausa da un libro meraviglioso che stavo leggendo, e di cui vi racconterò dopo averlo digerito, ed ho preso in mano svogliatamente “La guardia, il poeta e l’investigatore” di Jung-myung Lee. Finito in tre ore. Dopo alcune pagine farraginose iniziali, si capisce che l’eroe non è la guardia carceraria che parla in prima persona, né i prigionieri, ma un aguzzino ammazzato non si sa da chi, e che si rivela dapprima un simbolo di una guerra di cui non sapevo nulla (quella tra Giappone e Corea degli anni 40), dappoi un simbolo della desolazione culturale cui era stato costretto l’Impero Nipponico in quegli anni, infine una metafora sulla poesia e sulla vita che sfidano e trionfano sulla morte, l’orrore, quel misto di lacrime, sudore, feci, urina, sangue, vomito e pus che accompagna le pagine di un romanzo inatteso e di terrificante bellezza. E di dolci inni alla bellezza ed all’apparente semplicità della gioia. Contro la solitudine, un peana per il dolore, simile al “Hurt” dei Nine Inch Nails, così giustamente famoso… A pagina 154 il poeta recita: “Accanto, sul mio letto, tu mi sarai, dolore / per cercare di entrarmi ancora dentro al cuore”. L’ha scritta per me, non ho dubbi. Per dirmi che non è vero – quando mi sento solo e spaventato – che io lo sia. Quella pena che c’è sempre stata, cui mi aggrappo, e che conosco meglio di me stesso, mi ha fatto compagnia, e mi ha permesso di vedere il bello ovunque. Ieri sera, al telefono, Christiane ha detto: “Sono sempre stata stupita dell’energia con cui abbellisci ed esageri i dettagli belli delle cose tristi che ti accadono. Forse solo così potevi sopravvivere e crescere nella solitudine totale in cui hai vissuto”. Che poi, a conti fatti, se e quando sono stato solo, questa è stata una mia scelta, che il Fato mi ha sempre reso ricco di doni e di affetto altrui. No, qui si parla della solitudine di ciascuno di noi di fronte all’ultima Parca, alla Grande Paura, al non-dopo. Questo è un romanzo sul non-dopo, sull’impossibilità di un futuro, anche nel caso in cui ci fosse, in un mondo sporco ed angusto in cui si muore senza sosta, senza motivo, senza difesa. Alla fine del libro, quando si scopre che la soluzione del mistero fosse la più oscena possibile, chi parla dice che sopravvivere è forse da vigliacchi, ma che morire da eroi è inutile. Io non sono in grado di dire nulla, sono in un periodo difficile e poderoso di cambiamento, ho 57 anni, ma posso dire che questo libro mi ha sospeso l’anima, le ha donato una poesia scarna e di infantile bellezza, poi mi ha dato un buffetto sul sedere e mi ha detto: sì, il mondo sa fare schifo, fai ciò che è necessario perché, di tanto in tanto, ci siano isole di serenità. Muovi il culo, fratello. E quindi dedico questo al Sarchiapetto, che è così grande nel mio cuore, e che questo libro spero non lo legga mai.

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