“La lettrice scomparsa” di Fabio Stassi è un libro che va letto, nonostante non sia un capolavoro. Non lo è, a mia ragione, perché Stassi, che è quanto di più vicino a Pessoa io abbia incontrato negli ultimi dieci anni (chi mi conosce sa che per me Antonio Tabucchi, a parte “Notturno indiano” ed in parte “Sostiene Pereira”, sta a Pessoa come Fausto Leali sta a Wilson Pickett), ha cercato di accalappiare il lettore con una trama da giallo, che è costruita in modo ingenuo e si conclude con un bel colpo di scena, ma con uno scarsissimo senso del ritmo. I singoli capitoli restano legati insieme non dalla narrazione, ma da una complessa struttura metaletteraria che è interessantissima quanto purtroppo incompiuta. Insomma, Stassi era lì lì per scrivere un capolavoro, ma per sciatteria, fretta o probabilmente insicurezza ha pubblicato troppo presto, quando il libro non era veramente finito. Ciò non di meno è un libro di cui non potrete mai più fare a meno, perché contiene delle trasposizioni degli archetipi junghiani, disegnati alla guisa di High Fidelity di Nick Hornby (le donne che vengono a far visita al protagonista), nei cui anfratti sono nascoste delle frasi assolutamente indimenticabili, e ce ne sono tantissime. Scioccamente, preso dalla foga della lettura, ho dimenticato di sottolinearle, ed ora non le ritrovo scorrendo a caso le pagine. Ma si parla dell’impossibilità dell’altrove, della solitudine, dell’impossibilità dell’amore, della solitudine, dell’impossibilità del tempo e dei luoghi, della letteratura che si fa vita e si sostituisce ad essa, e quindi della solitudine. Se volete un libro disperato, al termine del quale scoprirete che quella stessa disperazione, unita alla solitudine, è la chiave per un nuovo, vero inizio, allora leggete questo libro, e magari saltate i passaggi verbosi in cui l’autore cita Gadda, Garcia Marquez, Carver, Chandler, e chi più ne ha più ne metta, e si possa leggere ciò che pensa e sogna Stassi – un universo meraviglioso e multiforme, che ricorda tantissimo Buzzati, e che lui invece vorrebbe (purtroppo) mischiare a Scerbanenco.

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