Era il febbraio del 1997, ed ero tornato a Zurigo, dopo i mesi a fare il contadino in Turingia, in una Comune in cui gli unici adulti erano tre meravigliosi bambini, che ho amato come fossero miei, e che ora sono sparsi per il mondo. Facevo letteralmente la fame, cercando di riacquistare lo spazio che avevo avuto come giornalista d’inchiesta in un’editoria che, in tre anni di assenza, mi aveva bollato come instabile – perché lo ero. Il divorzio da Adriana e la perdita di mia figlia Valentina erano stati un trauma terribile, per mesi ho vissuto come in una lavatrice, cercando appigli ad inesistenti approdi, anelando a qualcosa fuori di me per evitare di guardare in viso il mostro orrendo che mi divorava le sinapsi ed il cuore. Non avevo alcuna possibilità, perché si vedeva lontano un miglio che fossi una valanga di disperazione, e che rischiassi troppo scrivendo, guidando, programmando il futuro. Il castello di ipocrisie era crollato, ma solo il mio, il resto del mondo conservava il suo, intatto, ed io ero chiuso fuori. Una parte di me rimpiangeva la Germania, ma lì mi aspettava un amore impossibile, sciocco, proiettivo e ripetitivo, e non avevo né la voglia né la forza di affrontarlo di nuovo. Stavo talmente male che ho ragionato davvero di poter tornare a Roma. Avrei potuto lavorare ad “Avvenimenti”, che è una delle riviste per cui ho scritto di cui sono più orgoglioso. A Roma avevo persino trovato casa, in Via del Governo Vecchio e, come sempre, c’era una ragazza (che oggi è mamma ed è tra i miei contatti) che mi allargava i polmoni e la fantasia – e forse siamo stati ad un millimetro dal trovarci, quando improvvisamente sono tornato a Zurigo. Avevo vinto un premio con un racconto, e mi sembrava un segno del destino, come poi è stato. Quando arrivai alla premiazione, il non-amore tedesco era venuta in autostop per oltre 800 km per farmi una sorpresa, ed io ricaddi nelle mie solite stupide dinamiche. Ogni giro di giostra è peggiore del precedente. Sempre. Più noioso, più inutile, più infarcito di aspettative (che sono la tomba dell’affetto), di proiezioni, ma anche di rabbia pregressa, di otri gonfi di risentimento, di quelli che ti fanno piangere per liberazione, non per dolore. Mi disprezzavo, e non mi accorgevo del fatto che stavo crescendo e che la vita, come è sempre accaduto, mi stava aprendo nuove porte. Ma noi bambini viziati e cretini, naturalmente, facciamo finta di non vederle, queste strade, perché ci costano fatica, impegno, dedizione. Noi dichiariamo dedizione ad un amore che non ha senso di modo di avere l’alibi per non dedicarci a nulla – soprattutto non a noi stessi. E venne il Festival di Sanremo. Patty Pravo, praticamente un relitto del Pleistocene, cantava una canzone scritta da Gaetano Curreri degli Stadio e da Vasco Rossi. L’ascoltai come inebetito, senza nemmeno capire veramente il testo, che resta secondo me un vero capolavoro. E che mi intimava: “Dimmi che non vuoi morire”, proprio quando io, al punto estremo dell’imbecillismo pupesco, volevo lasciarmi morire per punire le mamme ed i papà che mi avevano trascurato. Fu uno schiaffone. A me piace essere stupido, ma a volte il mio cervello reagisce e mi costringe ad essere lucido ed onesto. Non preoccupatevi, sono momenti – anche se oggi accade molto più spesso. “La cambio io la vita, che non ce la fa a cambiare me, che mi ha deluso più di te, e dimmi che non vuoi morire”. Avevo il volto rigato di sudore e di cattive compagnie, gli occhi gonfi di vittimismo e di coraggio, infine. Nei mesi successivi scrissi alcuni degli articoli più importanti della mia carriera e tornai ad essere famoso e ricercato. La WochenZeitung mi chiese di scrivere una serie di articoli sulla mia vita, che ebbero un grande successo, perché li usai per prendere per il culo tutte le mie debolezze. Cercari di ricostruire un minimo di relazione con mia figlia, persi 30 chili, tornai a correre e nuotare. Cominciai a scrivere critica letteraria e musicale, e poi reportage sociali. Cominciai a soffrire di calcoli renali. Scoprii che non c’era bisogno di fare cose per rabbia, ma che venissero meglio fatte per amore. Solo in quel momento ho imparato ad essere giornalista (un mestiere che oggi non esiste più) ed ho smesso di piagnucolare come un cazzone. Ho collezionato 130 processi per diffamazione, ne ho persi solo tre, e ad ogni processo sono divenuto più solido, più bravo, meno spaventato – e ripresi a scrivere musica. In un’intervista, Patty Pravo, che era tornata a cantare al Piper, aveva detto che quella canzone le aveva restituito il senso di esistere per aver qualcosa da dire, e che aveva cambiato per sempre la sua percezione del successo. Parlando con Pippo Baudo, in TV, disse: “Ora credo di essere diventata adulta”. Sbagliavamo entrambi, c’erano ancora tante prove da superare. Ma, come si dice da noi in Germania, “Der Weg ist das Ziel”. Il viaggio è il vero traguardo. Sono passati esattamente vent’anni, e sono ancora qui che vado. Ho avuto una vita meravigliosa, fortunata, e piena di persone che mi hanno insegnato, aiutato, amato ed accettato. Questo, Patty, è il vero successo.

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