Più avanzo nella lettura di Erik Vaulen (“Il settimo bambino”, Neri Pozza Editore, 2015) e più mi addentro nell’analisi di una sostanza dell’anima, la “nostalgia”, su cui non avevo mai riflettuto con attenzione prima. La parola viene dal greco e vuol dire letteralmente “il dolore del ritorno” ma si tratta di una costruzione fatta da psicologi ed antropologi dopo la nascita dell’illuminismo, dopo Kant, dopo Hegel. Il che non vuol dire che non esistesse prima, anche se due giornate passate a cercarne tracce nella letteratura latina e greca, se si eccettua il mito di Odysseus (Ulisse), non hanno dato risultato. Gli antichi filosofi e generali mi paiono spesso più moderni ed aperti mentalmente di noi. Ciò che ho imparato è che finora ho creduto che la nostalgia fosse il dolore che si prova a ricordare qualcosa che non c’è più o che è divenuto inarrivabile. Questa definizione è talmente riduttiva da essere sbagliata e, quindi, fuorviante. Prima considerazione: La nostalgia non è solo e sempre un dolore, ma una spinta. Si tratta dell’identificazione di alcuni tratti caratteristici di una manifestazione della realtà tramite quali riconosciamo intuitivamente e con l’anima qualcosa cui tendiamo prima ancora che il cervello sia in grado di formulare il desiderio in un’immagine, una parola, un oggetto. Difatti la nostalgia può essere scatenata da un odore, da un sapore, dalla consistenza di qualcosa che tocchiamo, da qualcosa che entra nel nostro campo visivo, da una melodia o un rumore. I nostri cinque sensi percepiscono qualcosa e lo trasformano nel ricordo di ciò di cui abbiamo stringente bisogno e che non ha nemmeno bisogno di essere definito, e che solo dopo alcuni secondi viene tradotto (fallacemente) in un’immagine. Per questo motivo c’è chi crede di avere nostalgia per un luogo geografico, per una persona, per una canzone, per un oggetto, e quando poi viene posto di fronte a questa consustanziata immagine, si sente deluso, perché la nostalgia aveva caratteri distintivi diversi. I luoghi, le persone, gli oggetti, le melodie sono cambiate da come ci piaceva ricordare. E da qui si passa alla seconda, e centrale, considerazione. La nostalgia non riguarda il ricordo di qualcosa che conosciamo per esperienza diretta. Noi identifichiamo il ricordo di una sensazione di felicità completa e subitanea nella persona, nell’oggetto, nel luogo o nella melodia che ricordiamo – ma la nostalgia è molto più antica di quei ricordi. La nostalgia fa parte del nostro DNA, rimpiangiamo cose cui non sappiamo dare un nome e che erroneamente cerchiamo di identificare in qualcosa che conosciamo, per darci una ragione, per calmare la disperazione. La nostalgia è l’afflato che ci mette in comunicazione diretta con ciò che non “avremo” mai, perché non è nel passato, non è nel presente, non è nel futuro, non ha né luogo né tempo – fa parte di un’altra parte della nostra coscienza. Per questo motivo la nostalgia (se non degenera in malinconia) è la spinta positiva, tenace, impellente, vera e fruttifera che ci porta a cercare ovunque una traccia di un noi stessi che non si sa realizzare e non sa nemmeno da dove cominciare per farlo. Ora capisco perché scrivo parole e canzoni – perché sono capaci di suscitare emozioni, che sono le chiavi per la porta della nostalgia. Naturalmente la nostalgia, di per se, non è né positiva né negativa. Ci sono miliardi di persone che sono nostalgiche del fascismo, della dittatura, della guerra. In Germania un detto dice in proposito: “Dio punisce i suoi figli esaudendo le loro preghiere”, poiché costoro provano nostalgia per qualcosa che credono di conoscere ma di cui non sono in grado nemmeno lontanamente di valutare le conseguenze e l’impatto violento, totale, annientante. Esistono poi le persone che cercano di imporre la propria nostalgia (e più spesso la propria malinconia) agli altri. Anche qui il tedesco mi soccorre: “Costringere alla felicità”, slogan della Germania Est sotto la dominazione sovietica che parla di brutale repressione, di invidia, di gelosia, di bisogno di distruggere ed umiliare gli altri. Nel libro, che contiene una feroce critica ai partiti socialdemocratici europei ed ai loro legami inconsci col nazionalsocialismo (di cui la socialdemocrazia è una variante buonista ma non per questo meno bugiarda), si racconta di come la TV uccida la cultura e la nostalgia – che vanno a braccetto. Il risultato è, sempre e comunque, la violenza. Paura, rabbia, amarezza, frustrazione, violenza. Nel libro di Vaulen (che non è un capolavoro) tutto questo ha un’impalcatura ideale ed ideologica straordinaria, ma purtroppo una resa narrativa insoddisfacente, troppo meccanica. Ma da un’immagine della Danimarca che fa paura come quella del resto della Scandinavia, nazioni in cui la violenza segreta e familiare, collegata all’incapacità di comunicare e di sognare, conosce vette sconosciute qui da noi sulle rive del Mediterraneo. Ma non siamo qui a giudicare una nazione o un libro. Mi preme consigliarvi di abbandonarvi alla nostalgia, di cercare di capirla, amarla come una parte lucente di voi, di accettarne l’irraggiungibilità, e di creare le vostre piccole grandi opere d’arte sull’altare di questa Dea dolorosa e romantica, sfuggente e seduttiva, che ci permette di credere all’amore, persino per noi stessi, quando la realtà oramai parrebbe averci insegnato a smetterla.

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