– Sono stato al vernissage delle opere di Monica Di Brigida a Wo-Ma’n di Marta Rossato e Wolfango De Spirito. Come al solito la prima impressione é che ci voglia una miniera inesauribile di entusiasmo e passione per mettere a disposizione la propria casa per una galleria d’arte, come fanno con semplicità, gusto ed intelligenza Marta e Wolfango. “Ma non è di questo che si vuol parlare, ma piuttosto del cuore”, direbbe Gaber. Il lavori di Monica Di Brigida, nell’opinione di un profano come me, suscita tre reazioni: una a livello estetico, una livello poetico ed una a livello discorsivo. Esteticamente le foto sono generalmente legate ad un metalivello talmente intellettualizzato da risultare fredde, metagelide, protoalgide. L’ispirazione, scrive Monica sulla presentazione, sono i bidoni ed il metallo abbandonato. I colori dominanti sono quindi grigio, piombo, antracite, ruggine. Laddove spuntano blu cobalto e marroni sull’ocra si intravede già un richiamo meno urbano e qualche concessione non leziosa ad un gusto più immediato e non intermediato. Quindi, credo, in questo senso la mostra é riuscita. A lievllo della poetica la prima impressione, la prima associazione è il “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati. Ed infatti Monica chiama la sua mostra “Suhub”, nuvole in arabo. Nelle macchie di assenza di colore si intravedono fantasmi, miraggi, ombre, percezioni vaghe e mistiche, anoressie di pathos. In questo senso la mostra colpisce nel segno, specie nel trailer mostrato al bagno, in cui il filmato mosso diventa un ghibli, una tempesta di sabbia mista a sogni e ricordi ancestrali, un pulviscolo grezzo e resistente che si insinua nelle pieghe della nostra sonnolenta pigrizia cittadina. In questo senso la home gallery stupenda di Via Pietro Ruga è lo scenario ideale per le immagini di Monica Di Brigida. Mi disturba la tanta tante tanta gente presente, anche se sono felice per Marta e Wolfango, che si meritano il grande successo ed a cui mi permetto di voler bene. Mi disturba la gente perché contrasta con la sua mollezza al vorticare delle immagini, contrasta con la poesia da altipiano rovente, lo rende estraneo. E qui passiamo al discorso. Bisogna necessariamente capire l’arte o bisogna semplicemente percepirla? Va bene dire che le immagini di blu mi abbiano colpito come se fossero ricordi di miei sogni (e mi sono piaciute) e quelle grigie e rugginose mi abbiano respinto? Certo che va bene, perché entrambe le percezioni mostrano a mio parere che Monica Di Brigida con il suo lavoro è nel bel mezzo di un discorso assolutamente immanente: per vedere la cruda realtà degli oggetti e dei sogni bisogna sporcarli della polvere e ruggine storica del capitalismo industriale, che ha trasfigurato tutto, la nostra anima in primis. Monica ce lo ricorda, senza giochetti da poco prezzo, con semplicità ed immediatezza, con risultati differenti, non banali, e soprattutto mostrando di essere all’inizio di una strada ancora da percorrere, fino al momento in cui i Tartari, come i mostri che stanno dietro ai nostri sogni, appariranno all’orizzonte e ci attaccheranno, per consumare ciò che resta della nostra anima.

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