Quando siedi sulla riva del Gange, a passare sono i cadaveri di tanti, e non solo nemici. Quest’anno, poi, sembra il peggiore di tutti. Nel frattempo lo saprete: è morto Prince. Aveva la mia età. Era un’istrione, un millantatore, un casinista, che come Stevie Wonder sapeva suonare tutto, ed aveva unito in uno stile unico James Brown, i Talking Heads, Carlos Santana, Jimi Hendrix e Frank Zappa. Di lui sapete probabilmente tutto, perché appartiene ad un’epoca in cui la musica sponsorizzata dalla grande industria era già molto accessibile. Non credo sia stato importante quanto è stato dipinto, lo metterei piuttosto insieme a Terence Trent d’Arby, Ben Harper e Lenny Kravitz, ovvero nel giro di chi appare molto più di ciò che è – ma per molti ha significato qualcosa, e va rispettato per questo. L’unica volta che l’ho visto dal “vivo” (quasi tutto in playback) la cosa che mi aveva impressionato di più era la band che suonava come support, i They Might Be Giants. Senza di lui non sarebbero mai esistite né Sinnead O’Connor, né le Bangles – che ebbero successo con canzoni scritte da lui. Grande manierista, all’inizio della carriera aveva avuto grandi intuizioni, ma poi era stato ben presto superato dall’estetica del suo stesso mito. Ma rimane una pietra miliare, necessaria per spiegare gli anni ’80 e le contraddizioni estetiche di quegli anni. Prima di andarsene, sarebbe stato giusto che ci spiegasse, ma il giornalismo musicale, da sempre, non è capace di porre domande.

Lascia un commento