– Marcho Gronge dal vivo con il trio di jazz napoletano Arduo, seminascosti in una gelida cantina di Trastevere, con le famiglie ed alcuni sfegatati, bevendo chinotto (io) e vino (gli altri) per cercare di ripristinare una temperatura sopportabile. Intorno a noi un condominio di fantasmi minacciosi, rappresentati da un ragioniere con scarpe da ricco e giacca sbagliata che ci fa capire che siamo tollerati, ma certo non particolarmente apprezzati. La medicina che serve. Arduo suona jazzcore con trasporto e grande tecnica – cose che generalmente non accompagnerei al genere, snob come sono. Invece sono bravi, davvero bravi. ma mi chiedo cosa diavolo possa combinare Marco con quei ragazzi. Intorno a me vecchie glorie del punk romano con famiglia, in testa gli stessi berretti che ho amato a Lipsia, le stesse splendide giacche che non fanno caldo ma calore umano che ho amato in tutti i posti dell’hardcore della mia seconda gioventù: Torino, Berlino, Erfurt, ma soprattutto Connewitz, fogna e paradiso, perdizione e terra promessa, Zoro e LiWi, amore e tradimento. Ecco cosa porta sul palco Marcho. L’amore e il tradimento, il dolore ed un altezzoso sarcasmo, proprio di chi é uscito dalla rabbia, di chi è sopravvissuto al simbolo di se stesso e, proseguendo su una strada in cui lo immagino solo e spesso incompreso, ha attraversato come Acheronte un lungo viale sulla cui sinistra si vede la Cattedrale di San Demetrio Stratos ed alla destra il Duomo di Captain Beefheart. Una meraviglia inattesa, un gioiello che, come é giusto che sia, è nascosto tra le pieghe dell’asfalto, nelle balle di cotone dimenticate, nel gelo di una cantina di un quartiere pervertito e trasecolato. Dall’altra parte di Viale Trastevere, infatti, a pochi metri da noi, bubbonici coglioni e risoliniche battone mettono in scena la notte di Trastevere, quello schifo che ne è rimasto. Marcho invece vola, fa il verso degli animali, stride di nostalgia e di trascendenza, inneggia al crepuscolo delle intenzioni, la notte nera della falsa comunicazione, suda via la cattiveria ed il dolore di un secolo che non ci appartiene, cui non apparteniamo, dal quale ci difendiamo in una quotidianità indicibile. Un ragazzo nero con i bonghi se ne va deluso, non riesce a tenere il ritmo complesso e bicefalo di Arduo, ma soprattutto è stupefatto di Marcho. Pensava di andare ad una serata di ritmo, ed invece siamo in una notte di parole e note, ma soprattutto parole, anche se a volte non si capisce tutto, l’impianto fonico della cantina fa cilecca, il ruggito di Arduo copre le sillabe di Marcho. Se dovessi però condensare l’intero concerto in una sola parola direi: eleganza. L’eleganza che si impara con il tempo ed il rimuginare, con il distanziarsi dall’immediatezza del punk per ritrovarlo all’uscita, cambiato, non estetizzato, ma recuperato alla sua funzione primaria: parlare al cuore dell’uomo. Una bimba dorme, noi applaudiamo la band, c’é un’allegria da fabbri che hanno appena creato una statua di acciaio contorto e bellissima. Sono pieno di gratitudine. Il jazz è vivo e va avanti. Il punk fiorisce negli interstizi dei nostri meravigliosi gelidi bassifondi. Marcho Gronge è e resta uno dei punti di riferimento culturali della passione e dell’arte. Ne canta a lungo, nel concerto. Arte, immobilità, controllo. Roba per pochi, come la cultura, che non è mai di massa, ma elitaria. Grazie, grande Marcho, a buon rendere…

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