Uno dei grandi doni che ci ha fatto la vita agiata e sicura degli ultimi 70 anni nel mondo Occidentale, è che quasi ognuno di noi ha potuto vivere fino in fondo una propria passione. Il giornalista american William “Bill” Finnegan, che quest’anno ha compiuto 65 primavere, è malato di surf, ed ha vinto un Premio Pulitzer raccontando in “Giorni selvaggi” mezzo secolo trascorso su una tavola legata a un piede, lasciandosi massacrare da onde e rocce in giro per il mondo. Il libro è lunghissimo, e ci sono alcune pagine che rasentano il tedio, e si salvano per il modo in cui Bill racconta del suo girovagare hippie per la Micronesia, l’Australia, l’Estremo Oriente, l’Africa, Madeira, il Centro America. Durante tutte le pagine ho ripetuto come un mantra “questo è tutto matto”. Ma più tardi, specie dopo la nascita della figlia, ho iniziato a percepire la grandezza del racconto. Ve lo giuro: il surf non fa per me, troppo noioso e pericoloso. Eppure, improvvisamente, ho sentito Bill un fratello. Dedicare tutta la vita – in assoluta serietà, facendo in modo che divenga una professione – a tutti i capricci di bambino, rivestendoli di una patina di serietà, funzionalità, guadagnando soldi e fama abbastanza da impedire che chiunque gli girasse intorno passasse le giornate ad insultarlo per il suo infantilismo, il suo egoismo, la sua estraneità totale all’umanità, è un’impresa che sfiora il capolavoro. Finché nasce Mollie, e di colpo il mondo entra dentro di lui da una porta che lui non sapeva che esistesse. Naturalmente non smette, ma invecchia in pochi minuti, e si rende conto che non riuscirà mai più a fare le cose che aveva fatto fino a pochi secondi prima. Le ultime pagine del romanzo sono strazianti e pedanti, ed il tempo, che prima scorreva lentissimo, diventa un gorgo inarrestabile. I posti che amava sono stati cementificati, violati e traditi. I suoi genitori muoiono. Bill è esterrefatto e scrive: “Bisogna odiare il modo in cui il mondo va avanti”. Nonostante tutto. Perché nel nostro egotismo inguaribile, fino a quel momento abbiamo veramente creduto di essere immortali, che invecchiare fosse una malattia per vecchi, non per eterni giuggioloni buzziconi caciaroni come noi. Arrendersi all’evidenza è peggio che morire, e lo si può fare solo perché si ama, incommensurabilmente, un bambino. Bill racconta l’esperienza chiave. Facevano il bagno nell’Oceano, è arrivata un’onda più forte, la mano di Mollie gli è sfuggita. Pochi secondi di panico, poi gli occhi della figlia, pieni di delusione, che dice “non importa, papà”. Ma importa eccome. Abbiamo vissuto in una bolla temporale che sta velocemente finendo. Già i nostri figli verranno nuovamente catapultati nell’orrore che è stato risparmiato alla nostra generazione e che insegue il tumultuare autodistruttivo della razza umana sul Pianeta Blu ormai da sempre. Poi, logicamente, tutto passa, il libro deve finire. Ebbene, finisce con una frase che mi ha fatto scoppiare in lacrime: “Continuavo ad avere dei dubbi. Ma non avevo paura. Volevo solo che non finisse mai”. Se un giorno mai dovesse capitare anche a me (e vi assicuro, ne dubito spesso), per favore, sulla mia tomba, scrivete questo. Perché è così che ho vissuto.

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