Mi raggiunge adesso una notizia tristissima, l’ennesima di questo anno di merda. A pochi metri da casa mia è morto Alberto Statera, che è stato uno dei grandi maestri del giornalismo d’inchiesta, uno che è stato capace, sempre, di essere preciso, di non partecipare mai alla macchina del fango, di essere direttore di giornale senza dimenticare di essere giornalista. Il suo “Storie di preti e palazzinari” è l’ultima testimonianza rimasta per spiegare la concatenazione di scandali che, a partire dal 1815, ha contrassegnato la crescita immobiliare di Roma, connettendola alla storia del Banco Ambrosiano e la parte svizzera, mai investigata da nessuno (io ho scritto tanti articoli in proposito, ma non sono mai riuscito a scrivere un testo più impegnativo), dei legami tra lo IOR, Roberto Calvi, Helios Jermini, il potere liberalradicale e PPD del Ticino, le banche elvetiche, l’Opus Dei, e chi più ne ha più ne metta. Alberto Statera, che faceva parte della squadra investigativa di Eugenio Scalfari, quando quest’ultimo era ancora vagamente credibile, inventò “Terzo Grado”, risollevò “Epoca” (la rivista più bella mai pubblicata in Italia), guidò con Giustolisi le investigazioni de “L’Espresso”, e poi Scalfari lo mandò in giro a salvare i singoli quotidiani del gruppo “La Repubblica”. Scrisse due libri bellissimi (e spiritosi) sulle marachelle di De Benedetti e Berlusconi (già sembra un milione di anni fa…), lasciò la Mondadori, quando era a capo di tutti i capi, perché gli si rivoltava lo stomaco a lavorare per il Gruppo Fininvest. Se il mio coinquilino Vittorio Zucconi è un vanitoso e compiaciuto vecchio trombone, Alberto Statera è rimasto sempre un reporter al confine tra la “nera” e la pagina finanziaria, uno che aveva imparati l’importanza dell’offshore quando noi raccoglievamo solo pettegolezzi da poliziotti chiacchieroni. Ha insegnato a tutti un mestiere che non esiste praticamente più: quello del giornalista. Ed ora, in silenzio, se ne è andato con la nostra rabbia, il nostro entusiasmo, il nostro spirito di emulazione, il nostro bisogni indirimibile di capire, di imparare, di spiegare, di condividere. E così la nostra vita s’impoverisce, restiamo sempre più soli – e cresce la responsabilità di ognuno di noi, di essere voci che gridano nel deserto. Perché la sabbia dell’ignoranza che diventa arroganza (cit. SIlvano Stipcevich), o se preferite il Nulla di Never Ending Story, non distrugga tutto.

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