Ho conosciuto una solitudine terribile, schiacciante, mortale. Quella di una persona che ha vissuto la vita per sembrare ciò che non riteneva in grado di poter essere, e quindi dipendeva sempre dal voto di una giuria, come si fosse in un’eterna gara di tuffi, e, non sapendo (per ignoranza e limiti intellettivi) se stesse facendo bene o male, sopravviveva nell’incubo di essere eliminato dalla gara. Peggio: la gara non esiste, quindi costui credeva di essere eliminato, ma non sapeva nemmeno da cosa. Non aveva quasi mai una relazione vera con ciò che faceva, perché era troppo impegnato a fingere di essere, e quando veniva veramente avvicinato, fuggiva per paura, per sospetto, per timidezza, per cialtroneria, per pigrizia, per vigliaccheria. Poi, per fortuna, mi sono girato e sono caduto dal letto. Il colpo mi ha svegliato. Come in un viaggio interstellare, mi sono reso conto del fatto che quasi tutti i ragazzi che conoscevo fossero ibernati nello stesso programma di viaggio ultradecennale, e che non potessero essere svegliati, perché il mondo e la vita esigono capacità che loro non hanno più, e li renderebbero incapaci a sopravvivere. Meglio che dormano ancora. Solo che, dormendo, sono passati decenni persi ad evitare la consapevolezza. Mi è andata di lusso: il mio avatar è stato bravo, ne ha fatte di tutti i colori, ma mi ha consegnato una solitudine nuova, solo apparente. Ho scoperto di aver fatto anche tanta sostanza, ed è bellissimo, ora, continuare, ma sapendo cosa sto facendo. Non ho avuto una seconda mamma che mi accompagnasse per decenni nel brancolio al buio, e che sacrificasse la sua vita per mostrarmi la mia. Bene, non ho combinato guai irreparabili, ed alla fine ce l’ho fatta da solo. Ce l’ho fatta? Da solo? Ce l’ho? Ce? C?

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