Forse non vi sembra rilevante, ma il mercato dell’acciaio si è trasformato, molto più di quello del petrolio, in uno scontro chiave per la sopravvivenza dei sistemi economici. Non solo (ma anche) dopo il disastro dell’Ilva di Taranto, in Europa crescono i costi di produzione, dovuti ai seguenti fattori: a) si deve spendere sempre di più in sicurezza per i lavoratori e per gli abitanti delle zone circostanti; b) si dovrebbe spendere sempre di più per ottemperare alle leggi contro l’inquinamento; c) i lavoratori guadagnano molto di più che nei Paesi che ci fanno concorrenza (Cina, Turchia, Serbia, Brasile, Corea del Sud, Ucraina, Iran, Russia, Taiwan); d) la pressione fiscale sulle imprese dell’Unione Europea è maggiore che altrove, perché il welfare europeo (ovvero il livello di stile di vita degli abitanti) costa molto ma molto di più di quello della maggior parte dei Paesi che competono contro la nostra siderurgia. Leggendo “Il Sole 24 Ore” vedrete delle cifre da capogiro. Decine e decine di miliardi che una volta (fino a dieci anni fa) restavano in Europa e che ora volano via come foglie d’autunno esposte al maestrale. Leggendo, vedrete che la famiglia Marcegaglia, la cui massima esponente è stata a lungo a capo di Confindustria e per la quale si preconizza una brillante carriera politica, nel momento in cui avesse voglia e tempo di percorrerla, guida il gruppo che in assoluto compra di più dalla Cina, la Serbia e l’Ucraina. Quello che l’articolo in questione non dice è che la necessità di un’accresciuta capacità di produzione di acciaio nei Paesi meno ricchi viene in parte risolta dal cambio di etichetta di parte dell’acciaio UE (che viene improvvisamente e miracolosamente importato da Paesi diversi da quelli realmente all’origine della produzione, oppure da ditte europee che hanno spostato le fabbriche altrove). Nel 2013 il mercato globale pagava circa 150 Dollari alla tonnellata (per una cifra complessiva di circa 110 miliardi di Dollari di valore dell’intero mercato), nel 2014 si è scesi a 105, nel 2015 si è scesi a 90, le cifre del 2016 non le conosco, ma si continua a scendere (siderweb.com/prezzi/6). Il calo è dovuto al fatto che esiste una immensa sovrapproduzione, e che quindi il mercato, libero da vincoli, necessitando di vendere a qualunque prezzo, scarica le perdite sulla sicurezza, sull’impatto ambientale, sugli stipendi, sul numero dei dipendenti e sulle tasse, riducendo i costi il più possibile. Una Caporetto, tendenza al peggioramento, almeno fino al punto in cui la siderurgia europea non farà fallimento, o la tecnologia sarà in grado di sostituire l’acciaio con un altro materiale. Vorrei aggiungere che il motivo centrale per cui Paesi come il Brasile e l’Ucraina fanno crollare i prezzi è perché sono Paesi strozzati dalle bolle speculative finanziarie con cui noi Occidentali li abbiamo messi in ginocchio. Quindi chi vende non è cattivo di per sé, ma disperato. E chi ci guadagna davvero vive altrove, e se ne frega. Questa tendenza incide per il 3,6% annuo sulla bilancia commerciale, costa una perdita di alcune migliaia di posti di lavoro e di percentuali di introiti fiscali ogni anno, insomma è un guaio serio. Una volta di più, in questo caso si vede che il liberismo è insensato, e che il mercato non si regola da solo. Il libero mercato ha una sola direzione: eliminare il soggetto più debole, ovvero l’umanità. Difatti l’Unione Europea sta reagendo in modo completamente anti liberistico: aumentando i dazi (ovvero le tasse di entrata dei prodotti dell’acciaio provenienti dai Paesi poveri). Cosa si ottiene? Che provvisoriamente gli Stati Nazionali riescano a sopperire in parte alla diminuzione delle entrate e che l’acciaio dei poveri scenda ancora più di prezzo, torturando l’ambiente e la gente di quei Paesi. La domanda di acciaio nell’Unione Europea non viene scalfita affatto, anzi (leggete appunto l’articolo da cui partono le mie riflessioni). Che fare? Portare il welfare nei Paesi del Terzo Mondo, ovviamente, proibendo i derivati, rivoluzionando il sistema industriale in base alle tecnologie più ecologiche e più moderne, investire nell’istruzione, nella cultura, nella partecipazione pubblica, introdurre il reddito di cittadinanza, che permette di lasciare a casa persone impiegate surrettiziamente (ovvero senza che ce ne sia bisogno). Sembra una banalità, non lo è. facciamolo, e vedrete che spariranno i disperati sui barconi, diminuiranno le guerre, migliorerà la qualità dell’aria e del nostro tempo, della nostra vita, e finirà la favola dell’uguaglianza, sostituita da un più maturo “pari opportunità”. Perché non siamo e non saremo in grado di instillare la voglia di vivere e migliorare nel 100% della popolazione, questo è un tema diverso, purtroppo.

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