– Sono stato al Teatro dell’Orologio a vedere “Mio caro Gutenberg” di Mirella Bispuri. Prima di dirvi la mia opinione, pubblico la presentazione scritta dall’autrice: “La cultura del “progresso” guida ogni nostro passo. Ma l’opera di rimozione verso un “prima” considerato oramai inutile, può produrre inaspettati sentimenti di frustrazione e solitudine. In una casa, un gruppo di persone, forse una famiglia, custodisce i frammenti di un passato storico, mescolati insieme a quelli di un passato naturale dell’uomo, come l’infanzia. Ci si prepara alla cena di natale, ma il giovane Gutenberg ha altro a cui pensare. La vita lo spinge verso il futuro, verso il cambiamento. “L’azione del progresso può produrre anche ferite, lasciare cicatrici…” lui comprende soltanto di dover arrivare a tutti i costi alla sua immensa, meravigliosa “scoperta”. “Una volta deciso che il personaggio di Gutenberg sarebbe stato fisicamente presente in questa storia, il testo di Mcluhan, la galassia Gutenberg, si è trasformato in un prezioso compagno di viaggio; diventando, per tutto il tempo della costruzione dello spettacolo, una sorta di luminosissima stella cometa.” Ok. Cosa ho visto io invece? Sei figure sul palco che fanno le seguenti cose: prendono degli oggetti da dietro le quinte, li portano sul palco, li aprono, li richiudono, li rimettono dietro le quinte. Avanti, indietro. Avanti, indietro. Immotivatamente, noiosamente. La maggior parte del tempo le figure (in ossequio all’affermazione di Macluhan sulla sacralità del legame fra lettera, suono e significato) squittiscono una non-lingua! Ma queste sono le parti di testo migliore, perché le frasi poi costruite dalla Sig.ra Bispuri assommano caratteristiche che non possiamo non credere intensamente volute, perché raramente ho visto tanta precisione: sono banali, vuote, imbarazzanti, stupide, superficiali, imbarazzanti, senza senso compiuto, noiose, imbarazzanti. Bispuri mette in scena il nulla con la frenesia di chi crede che la banalità agghiacciante, se espressa nella sua nudità demente e con lentezza sufficente, assuma una valenza diversa, profonda, forse apotropaica. Gutenberg non pensa, dice cose da soap-opera scritta per la notte di RAI2. La scoperta non c’è, non c’è trama, si perdono dieci minuti intorno ad un panettone. Alla fine il “padre” si sdraia su un lettino da campeggio e Gutenberg si sdraia sopra di lui, schiena contro schiena. Anche qui una lentezza degna del Signore degli Anelli. Il cambiamento voluto da Gutenberg è che si giochi a burraco invece che a tombola. Il dialogo della tombola é a mio parere il paradigma dell’intero spettacolo. L’uomo dice: si dice. E una figura: sedici! Poi dice: 47, e una figura: morto che parla. 11, gli zeppetti. Sono i riferimenti culturali più profondi di una scrittura che vede la vita sotto la lente del Grande Fratello e poi la semplifica perché probabilmente trova i dialoghi dei reality troppo intellettuali. Se la gente va a vedere questa roba per amicizia, e poi applaude esterrefatta, e la Sig.ra Bispuri si autocelebra in un modo dirompentemente lezioso, come se fosse convinta di aver partorito un’opera d’arte, poi quella stessa gente crederà (e non verrà mai più) che il Teatro indipendente italiano sia questo: un’accozzaglia presuntuosa e banale di frasi tratte dagli script scartati per gli episodi dei Barbapapà, il tutto diluito dalla lentezza estenuante della noia elevata a parossismo che, questa sì, esige finalmente una reazione dal pubblico. Per alcuni momenti ho temuto di restare vittima di un infarto. E mi dispiace per gli attori in scena, molti dei quali dimostrano presenza e fanno ciò che possono per non essere ridicoli. Ma quando il padre si lascia svestire per farsi mettere una catenella da cesso intorno al torace e fà le mosse da culturista, chi vi scrive vorrebbe essere ovunque, ma davvero ovunque, lontano da questo scempio dell’intelligenza. Roba del genere non dovrebbe essere rappresentata.

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