Ed ora anche Gato Barbieri. Non ne posso più. Magari non sapete chi fosse, e vi perdono. Gato è la chiave sudamericana per capire John Coltrane, il Carlos Santana del jazz, quello che rese possibile Chuck Mangione ed i Return to Forever, quello che ha insegnato la malinconia a Paolo Conte, il sassofono più vicino al nostro cuore mediterraneo che piange per un nonnulla e due secondi dopo balza sul tavolo per danzare incontro all’allegra malinconia di una festa che sta finendo. Gato è la solitudine della festa, la milonga eterna del nostro cuore malato, ma anche il piacione che ha suonato minchiate pazzesche per far soldi, nascondendo le sue cose migliori in dischi che hanno comprato in pochi, limitandosi a fare il cazzone che spernacchiava melodie da juke-box per trasmissioni di Carlo Conti e Raffaella Carrà. Insomma, come Gaber si cerca di ingabbiarlo in Goganga, Gato Barbieri si è confinato da solo nei dischi di ciarpame commerciale. Ma io ho gli altri dischi, quelli che straziano l’anima. E quindi adesso piango il grande artista, lo straordinario musicista, un altro brandello della nostra vita che se ne va.

Lascia un commento