– Sono stato a vedere “Strappi” di Carlotta Piraino al Teatro Uno di Tor Pignattara, a Roma. Si tratta di un patchwork, quasi un lavoro in divenire, sul tema dell’aborto. L’ho vissuto con una partecipazione che non mi sarei mai aspettato, perché il lavoro di Carlotta Piraino va dritto al fegato, ma passando per il cuore. Mi attendevo un’accusa sacrosanta all’atteggiamento maschile nei confronti della gravidanza, mi attendevo l’espressione dei dubbi delle donne che fanno o non fanno questa scelta, temevo un rimescolamento di carte di cose viste a Via del Governo Vecchio nella mia giovantù – sono stato meravigliosamente smentito. Come detto, “Strappi” procede per strappi. Un’intervista vera ad una chirurga che da 28 anni pratica aborti perché é rimasta la sola a non aver espresso obiezione di coscienza. Un documento crudo, appassionato, furente, di una donna avvelenata dalla sua stessa coerenza, di un eroismo silente e invisibile, pertinace alfiere in una battaglia che pare persa e che lei conduce con stanchezza, ma niente fatalismo o rassegnazione. Pathos senza patetico, anche grazie alla splendida prova attoriale di Liliana Laera. Poi cominciano le provocazioni: tre ragazzetti che raccontano barzellette sugli ebrei e poi mostrano la paura terribile che hanno dell’esclusione – paura di essere ebrei o omosessuali, paura di perdere il cellulare. Ma la paura più grande é quella della ragazzina che ripete: io esco con un ragazzo, ma non ci sto insieme, lui non vuole che io pensi una cosa simile. Un classico doloroso – la donna che si fà sempre scegliere, che non sceglie mai, ma anche perché i maschi sembrano essere intercambiabili, tutti uguali, come del resto le donne in questa società senza più punti di riferimento, per cui tutti possono fare tutto – e per causa di questa agorafobia mentale fanno tutti la stessa stolida, micragnosa, reazionaria, vita da gregge. È la prima volta in assoluto che vedo questa, che non a caso ho chiamato agorafobia, messa in scena con così tanta delicatezza e precisione, Carlotta Piraino ha costruito in questo un gioiello. Laura Garofoli impersona con struggente adesione la debolezza e la paura della solitudine di una ragazza qualunque che non sa chi sia, cosa fare, dove andare – ma che al momento decisivo é felice della gravidanza, che le dà un ruolo. Carlotta Piraino è così intelligente e sensibile da lasciare aperto il giudizio sulla gravidanza. La scena madre di “Strappi” è quella in cui la Dottoressa risponde contemporaneamente a due donne incinte, una che vuole tenerlo, una che vuole abortire. Un momento di grandissimo teatro, toccante e furioso, ma allo stesso tempo delicato e disperato. Questa scena sfocia in un parossismo gaberiano di grande intensità. Claudia Salvatore, che nella piéce dà vita con bravura e sensibilità ai personaggi più difficili ed eterogenei, grida “io sono mia” e le altre grandi parole del femminismo della campagna abortista del 1977 e del 1978, per poi trasecolare nel proverbio, nello scioglilingua, dicendoci che di fronte all’orrore di questa scelta impossibile tutti gli slogan si equivalgono – sono nulla. È nulla la donna che abortisce per comodità ed ignoranza, perché ha abdicato alla sua libertà e mente a se stessa ed agli altri. È nulla la donna costretta ad abortire dalle circostanze. Carlotta Piraino, in una favola drammatica rovesciata, ci spiega che l’aborto non è un gioco, che la gravidanza non è una malattia, che il sesso non è un social network obbligatorio: “date ad ogni donna incinta, invece di una lettera di licenziamento, un contratto a tempo indeterminato. Quella notte stessa, dopo l’approvazione della legge, milioni di donne resterebbero incinte”. Dietro di me, seduto scompostamente, un nugolo di coatti commentava a gran voce le battute, ridendo – all’inizio. Alla fine erano frastornati ed insicuri. Grazie Carlotta, l’Italia ha urgentemente bisogno di un Teatro come il tuo.

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