Parlare di Israele è sempre pericolosissimo, ma i miei carissimi amici Antonio Martines, Simone Coccia e Walter Bonacina mi hanno richiesto in diverse occasioni di fare chiarezza sui rapporti commerciali tra Da’esh (ISIS) e lo Stato Ebraico. Da’esh, infatti, estrae il petrolio dai pozzi del Nord Iraq e lo vende con la collaborazione della Turchia, del Kurdistan, di Israele e dei Paesi che, pur conoscendone la provenienza, comprano quel petrolio – Unione Europea inclusa. I contrabbandieri di petrolio, in quella regione, esistono almeno dal 1991, quando vennero siglati i primi accordi tra Israele, la Turchia ed il KRG (il governo dell’autonomia locale curda), che già allora era l’unica istanza di controllo effettivo del territorio, e che era nata nel 1970 grazie all’intermediazione di Saddam Hussein tra turchi e curdi. Per finanziare il KRG in opposizione al PKK (sto semplificando, eh?) i governi permisero che il KRG vendesse petrolio, specie nel momento in cui l’Iraq venne colpito dall’embargo internazionale. Ciò che accade oggi è la prosecuzione logica di quanto accadeva già 25 anni fa. Allora il traffico era gestito da un ex ingegnere della BP, Philip Dimmock, ma con gli anni sull’affare ci si sono buttati diversi trader importanti quali Lev Leviev ed Arkady Gaydamak, entrambi russi naturalizzati nello Stato Ebraico ed assurti a grandi ricchezze con il commercio di petrolio, di armi e preziosi. Questo commercio è continuato anche dopo che Delek International (il principale gruppo petrolifero israeliano) è riuscito a mettere le mani sui diritti di sfruttamento del Leviathan, un giacimento immenso di gas e petrolio, che si estende nel mare tra Egitto, Israele, Cipro e Turchia. Le ragioni sono due ed entrambe ovvie: in questo modo Gerusalemme compra petrolio a prezzi stracciati ed evita che alcune fazioni musulmane compiano attentati sul suolo ebraico. Oggi il petrolio di Da’esh viene commercializzato non solo da Delek, ma anche da Vitol, Trafigura, BP, Heritage Oil, Exxon, Shell, ed i turchi di Botas International e TPAO Türkiye Petrolleri Anonim Ortaklığı – un’azienda di Stato che prende ordini da Tayyip Erdogan. Il petrolio viene pompato attraverso l’oleodotto turco che porta da Kirkuk fino al porto di Ceyhan, nell’estremo sud turco. Da lì, le summenzionate aziende ne vendono una parte, anche se la quota maggiore viene ancora gestita da Philip Dimmock e dalla sua GX Petroleum, e prosegue il suo viaggio fino al porto israeliano di Eilat – la finestra ebraica sul deserto del Negev ed il Mar Rosso. Lì giunto, il petrolio viene raccolto e poi distribuito dalla EAPC Eilat Ashkelon Pipeline Company, che ha già fatto raffinare una parte del greggio ad Haifa. Il che vuol dire che nessuno ha dubbi da dove venga quel petrolio. Una parte del raffinato parte da Eilat commercializzato da un’altra società che appartiene in parte a Dimmoch, la Africa Oil Exploration, che ufficialmente vende a Gibuti ed alla Cina. In realtà, a partire da Eilat quel petrolio va dappertutto. Una parte del greggio, invece, finisce negli USA, dove viene raffinato dal gruppo Alon (un’altra azienda israeliana). I curdi gestiscono il traffico attraverso il ministro dell’energia, Ashti Hawrami, e sua moglie Chra Rafiq (cresciuta in Germania e con ottime relazioni in Europa), e trasportata dalla WZA Petroleum Company della signora Parwen Babaker, che era ministro dell’energia del KRG prima del signor Hawrami. I curdi commercializzano 250mila barili al giorno, Eilat e i turchi fanno altrettanto. In tutto sfioriamo il limite di 500 milioni di barili all’anno ad un prezzo stracciato di 26 dollari al barile, il che significa oltre 10 miliardi di Euro all’anno. Di questi, secondo il KRG, circa un quarto viene dal Nord Iraq ancora sotto il controllo di Da’esh. Tralascio molti altri dettagli ed i nomi di moltissime altre aziende coinvolte e vi suggerisco: il motivo di Israele è chiarissimo. Niente attentati e petrolio a prezzi stracciati poi rivenduto a prezzo di mercato. Quanta gente si arricchisca in questo modo ve lo lascio immaginare. Da’esh, ovviamente, ne approfitta ma ne dipende anche, perchè senza questo commercio sarebbe vincolata allo zaqat che viene dall’Arabia Saudita e dagli emirati del golfo – che sono alleati volubili ed inaffidabili, specie adesso che ad Israele è riuscito il colpaccio di far togliere l’embargo contro l’Iran. Quindi, adesso che Da’esh è in difficoltà, il sistema funziona male, perché la volontà politica di continuare sta venendo a mancare, ed una volta vinto Da’esh si tratteranno nuovi accordi con i nuovi padroni, sperando che siano i malleabili curdi. Che ne penso di tutto ciò? Nulla. Sono un pragmatico, e se fossi alla testa del governo di Gerusalemme farei lo stesso. Ma d’ora in poi, quando vi parlano del conflitto mediorientale e vi parlano di scontri di civiltà, culture e religioni, dubitate. Dubitate, perché si tratta certamente di questione etniche, ma soprattutto di redditività economica. Intanto noi ci prendiamo in giro l’un l’altro e crediamo alle favolette. Accordi di questa portata sono benedetti anche da Cina, Europa, Stati Uniti e Russia, o non potrebbero funzionare. E’ primavera, svegliatevi bambini.

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