Vado spesso a teatro. Non posseggo una TV e il cinema o mi stranisce per la violenza, o m’immalinconisce per la sua veridicità, o mi addormenta come una telecronaca di Formula Uno. Il Teatro, specie quello off, mi regala la sensazione di essere alla base della pulsazione del mio tempo, di vedere rappresentate cose importanti in modo da assumere una luce nuova e sorprendente. Non parlo del Teatro classico, che ripropone una cerimonia simile alla Messa in cui si ripete per la milionesima volta l’immagine di un mondo o mai esistito, o sepolto da decenni. Non parlo del Teatro pompato dalla stessa TV che offre talk show deliranti, talent show deprimenti e reality show angosciosi. Quel Teatro non ha senso, come gridava Suzi Quatro dal palco già 40 anni fa serve solo a chi sta nel pubblico per far vedere che c’è anche lei / lui e che è vestito in modo veramente trendy sedendo accanto a gente veramente trendy dopo aver bevuto qualche sciocchezza alcoolica o argomentativa veramente ma veramente trendy. Vado spesso a teatro, e ci trovo pochissima gente. Ciò che interessa a me sembra non interessare quasi a nessuno: parenti ed amici di chi è sul palco, e che viene magari soprattutto per affetto, per preoccupazione, per solidarietà, per senso di colpa. Questi spettatori sono contenti se riescono a ridere e, dopo un po’, scopri che si conoscono tutti, ma non sono una setta, quanto i disorientati vincitori (o perdenti) di una lotteria intergalattica e si trovano lì apparentemente per caso. Quindi mi intristisco, perché so benissimo quanta passione, quanta professionalità, quanta speranza, quanto studio, quanta acribia e quanto dolore ci sia in chi si espone al pubblico e scopre, a costi economici imponenti e sentimentali quali intollerabili, che se ci si espone avendo qualcosa da dire, e non per farsi deridere, non esista più (in Italia) uno specchio in cui guardarsi – ovvero il pubblico. Quando, alla fine di uno spettacolo, vedo scene di malinconia, tentativi di trovare un appiglio positivo, calcoli mal mostosi di quante persone però siano venute allo spettacolo di A o di B – come a dire che si è colpevoli, che sarebbe bastato fare la cosa giusta perché la gente sfondasse le porte urlando per poterci essere, mi prende una tristezza terribile, un senso di impotenza, una rabbia triste e senza redenzione. La gente spende solo per ciò che già conosce, o crede di conoscere. Mangia e beve, soprattutto, due cose su cui ritiene di avere competenza e controllo ed attraverso le quali vive una sorta di socializzazione – che non mi va di giudicare. Se va a teatro, ci va perché ha l’impressione di conoscere ciò che vedrà, oppure va a vedere ciò che la TV ha già fatto loro conoscere ed imparare a memoria. Il 90% delle persone non applaude qualcosa che percepisca come nuovo e da cui venga sorpreso, ma al contrario si felicita di riconoscere ciò che sente e vede. Per questo motivo la maggior parte delle band suona sempre verso la fine hit storica – perché il pubblico si sentirà di aver goduto veramente del concerto solo se avrà ricevuto ciò che già conosce, specie se suonato fedelmente alla copia del disco in studio. Il Teatro è ancora più difficile, perché la musica viene trasmessa per radio e per ogni altro medium, in continuo, e siamo allenati ad imparare motivetti, ma il Teatro abbisogna di tutt’altra pazienza, concentrazione, pertinacia: qualità scomparse nell’era degli ipad, in cui nessuno riesce più a focalizzarsi per oltre cinque secondi. La gente non legge e non conosce, e quindi si annoia in anticipo, perché sa che – qualunque cosa verrà loro proposta – sarà qualcosa che nessuno conosce e nessuno sa capire o apprezzare. Non si tratta di un fenomeno nuovo, è sempre stato così. Nell’antichità venivano rappresentati per decenni sempre gli stessi lavori, che si rifacevano per giunta a storie e miti già conosciuti e condivisi. Solo con il Decamerone e successivamente con la nascita e la diffusione del romanzo borghese la gente ha imparato ad apprezzare altre qualità del raccontare – ma oggi tutto questo è sostituito dalla TV, che dà una parvenza di realtà che il Teatro non vuole e non può dare. Il Teatro è rielaborazione, la sua manipolazione è sempre trasparente, mai subliminale come quella della TV. Ma in un’epoca in cui la più grande aspirazione collettiva sembra essere trovare una scusa accettabile per scansare ogni responsabilità e quindi ogni conoscenza, approfondimento, empatia, confronto dialettico e prospettico, analisi e “falsificazione” (nel senso dell’epistemologia popperiana), il teatro ed il romanzo borghese sembrano avere le ore contate – come il giornalismo, del resto. Stig Larsson ed altri esempi, come in Italia Andrea Camilleri e Roberto Costantini, mostrano che il romanzo ha preso l’indirizzo di raccontare i fatti che dovrebbe raccontare il giornalismo e non può più (o non sa più, o non vuole più). La TV propone plot stereotipati che hanno oramai superato di gran lunga la qualifica di topoi ed hanno cancellato la legge sullo “straniamento” predicata da Viktor Sklovskij, che una volta era fondamentale per la riuscita di un libro che, partendo da un’esperienza sociale condivisa, trovasse esiti sorprendenti. Snoopy l’aveva vista lunga: un uomo nacque, visse e morì. Oggi la quasi totalità delle produzioni narrative televisive sceglie se andare in direzione di Snoopy o in quella del romanzo che ricostruisce storia ed attualità per renderla comprensibile, fruibile, cauterizzata, digeribile. La gente non vuole domande, ma risposte, e si innervosisce se si tratta di risposte a domande di cui non capisce la natura o la teme, perché scalfirebbe la sua generale rinuncia al libero arbitrio ed alla responsabilità nei confronti di se stesso, degli affetti, dei concittadini, della società, del consesso umano, del pianeta. Che ci pensi qualcun altro: la casta o le multinazionali, cui permettiamo di fotterci, e non vogliamo nemmeno capire perché. La gente è stanca, non ha voglia di uscire, se non per mangiare, rimorchiare o partecipare ad un rito cauterizzante. La gente non vuole pagare per qualcosa per il quale non esiste una forte pressione sociale, come il cellulare alla moda, il vestito alla moda, il fantasma alla moda, ed è pronto ad accalcarsi per sedere in una sala in cui sorridano assenzi Belen Rodriguez o Francesco Totti, per vedere bambini torturati da finti artisti o pupazzi del karaoke che cantano ciò che già conoscono o suona esattamente come tutto ciò che già conoscono. Sono cambiate le figure di riferimento: la fine del capitalismo ha ucciso gli dei dell’epos borghese e li ha sostituiti con barbari scaltri e violenti, Bruce Willis ha soppiantato il Dottor Zivago, i Cesaroni hanno cancellato dalla cultura italiana i Malavoglia. Nemmeno Starace ed il suo fascismo, tantomeno il nazismo raffigurato in Fahrenheit 451 o in Animal Farm avevano mai ottenuto risultati simili. Oggi i libri non si bruciano. Si dimenticano. Una volta le persone seguivano più teatro perché conoscevano già tantissime storie e quindi ci andavano sapendo che avrebbero capito, riconosciuto, si sarebbero sentiti parte di qualcosa di più grande. Da Giorgio Gaber a Grazia Scuccimarra, ricordo che i Teatri erano pieni, e invece degli stolidi e noiosi guitti di Colorado o trasmissioni consimili c’erano i Gufi, Walter Chiari, Totò, Gilberto Govi, Ettore Petrolini, e via di seguito. Ripete spesso il sassofonista toscano Emanuele Cannatella, mio carissimo amico, che oggi i musicisti sono bravi come e più di ieri, ma è il pubblico che non è più in grado di apprezzarli. Lo stesso, a maggior ragione, vale per il Teatro. Considerato quale immensa influenza abbia avuto Giorgio Gaber su tre generazioni di italiani, aver cancellato il Teatro ed averlo ridotto alla sudaticcia arroganza di Gabriele Lavia o alla decrepita noia di Giorgio Albertazzi diventa quasi un obiettivo di politica culturale, l’ennesima vittoria della progressiva cancellazione democratica della democrazia che, iniziata da Licio Gelli, passa per Silvio Berlusconi ed ha il suo massimo epigono in Matteo Renzi. L’opposizione culturale e politica viene dalla barbarie e dalla violenza, da Matteo Salvini e da Beppe Grillo. Ma resta quel 10% di persone che, invece, avrebbero voglia, interesse, dubbi, nostalgie, inquietudine. Perché non vengono? Perché non esiste più un modo efficiente per farglielo sapere e dare loro un’indicazione credibile su cosa possano attendersi. Con la morte del giornalismo è morto anche il mestiere del critico teatrale, musicale, culturale. Ricordo una diretta di un live di Prince fatta dalla RAI. Alla fine di 90 minuti di noia straziante, i critici della RAI parlavano di concerto indimenticabile. Un esperto romano di allora, di cui (maledizione) non ricordo il nome ed aveva una bellissimo trasmissione su Teleroma 56, critico vero e indipendente, esterrefatto, chiedeva “ma dite sul serio?”, e poi “ma non vi vergognate?”, finché non venne allontanato dalla sala stampa col disprezzo riservato a chi non conosce e non capisce le vere regole del gioco. Subito dopo la sua splendida trasmissione di musica alternativa venne sospesa. Oggi moltissime critiche che leggo sono autoreferenziali e non spiegano nulla, si impuntano sulla trama e su eventuali debolezze testuali (come al solito: si parla solo di ciò che si riconosce – il formale), non rendono giustizia alla passione, alla prospettiva sociale, ai riferimenti, spesso comparano col cinema, che è cosa del tutto differente, o con l’impegno sociale e politico, in uno specchio rovesciato in cui il Teatro dovrebbe fare da megafono a questo, invece del contrario. L’asservimento della cultura alla linea è una delle conquiste storiche del socialismo e del comunismo italiano, che sarebbe stato meglio non ci fossero mai state – come ha sempre detto Pasolini, del resto, anche se a volte in modo esageratamente lezioso e cattedratico. E dunque? Bisogna smettere? Rinunciare? Continuare facendo la fame, soffrendo ed a volte sentendosi umiliati? Continuare inseguendo la tele visività, proprio ora che il suicidio culturale da essa coscientemente perpetrata è arrivata al punto da annientare questa stessa? Naturalmente no. Ma non si può nemmeno affogare di tristezza in un teatro vuoto, sentendosi “ a posto” avendo dato tutto nella preparazione della piéce. Gli uffici stampa non servono più, perché non esiste il giornalismo. I social network hanno funzionato per una stagione brevissima, la dispersione dell’informazione la rende impercettibile. Per vincere la guerra lo scrittore dev’essere oggi attore, regista, tecnico del suono e delle luci, capo ufficio stampa, pubblicitario, evento mediatico, personaggio televisivo, politico, critico culturale, imprenditore. Il tutto senza poter delegare nulla (mancano i soldi e le competenze) e ad una velocità assurda e controproducente, perché alla fine bisogna fare qualcosa d’altro per potersi permettere di essere artista – che di per se andrebbe anche bene, se bastasse. Le esperienze da me fatte a Roma negli ultimi quattro anni mostrano che sia impossibile tenere uniti artisti per un obiettivo comune. Lo dico senza amarezza, senza giudizio, ma con tenerezza e comprensione. Ci si litiga le briciole invece di sfornare il pane. Ho sempre creduto, quindi, che gli artisti dovessero divenire soggetto politico e culturale. Non che debbano modificare il proprio lavoro per renderlo “partitico”, anzi. No, bisogna imporre come fatto politico ogni momento culturale di affermazione di intelligenza, di complessità, di novità. Vorrei fare un elenco di autori che adoro, che meriterebbero un pubblico oceanico, perché il loro lavoro migliora chi lo vede e le capisce, lo fa proprio, lo interiorizza. Non sarebbe utile, in questa sede. Bisogna essere anarchia e gruppo al contempo. Bisogna essere serissimi e rigorosi divertendo, divertenti essendo seri. Bisogna andare a cercare i cavi spezzati della comprensione culturale in una società alla deriva nella tempesta del nuovo fascismo, prenderli, riannodarli, ricostruire memoria e comprensione. Scrivere sapendo dove si stia andando, ma anche da dove veniamo, cosa siamo. Personalmente, io ho sbagliato tutto, organizzando dal nulla insieme a tanti entusiasti RomaRIParte e poi TriesteRIParte. Era giusto inserirsi nella campagna dei referendum intitolata RomaSiMuove, ma non bastava, perché era una manifestazione episodica di un partito morente che cercava in quella operazione un rinvio della data di scadenza oramai marchiata a fuoco sui suoi simboli. Deppiù. Qualunque cosa voi abbiate mai sognato sul teatro, sulla politica, sulla cultura, sulla società, sull’istruzione, sulla famiglia, sull’amore – noi, deppiù. Se avete avuto la forza di arrivare fin qui pensateci, ve ne prego. Non c’è bisogno che vi chiami per nome. Sapete benissimo che sto parlando con voi.

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