Una sera di febbraio come questa, 40 anni fa, per la prima volta scrissi un testo e, con quel pochissimo di chitarra che ero in grado di padroneggiare, ci costruii una melodia. La canzone si chiamava “Uomo di cera” e parlava della mia paura di crescere, della paura che nella mia vita non sarebbe successo tutto ciò che mi era stato detto dovesse e potesse succedere. Nell’ultima strofa, di fronte al fallimento della sua esistenza, l’uomo di cera si scioglieva al calore del sole, perché il suo cuore non era più in grado di raffreddarlo abbastanza al giungere del mattino. Già da allora credevo che restare freddo fosse l’unico modo per ottenere ciò che volevo. Un errore grave, perché ogni volta che qualcosa colpiva troppo duramente la mia freddezza (ed accadeva spesso) reagivo solo con rabbia, o con la menzogna. La separazione forzata da mia figlia, dopo il divorzio del 1994, cambiò la mia geografia sentimentale. Oramai ero lontano da Roma, certo di non tornarci mai più, e cercavo di capire cosa fare di me. Fino ad allora avevo scritto diverse canzoni, molte delle quali sono oramai andate perdute, o perché non mi piacevano, o perché non ricordavo più le note da accostare al testo. Ma smisi di cantare. Del tutto. Smisi di cantare perché, facendolo, mi uscivano troppe cose dal cuore che preferivo sopprimere. Sapevo centinaia di canzoni a memoria, le ho perse quasi tutte. Avevo con fatica imparato giri complessi dei Led Zeppelin, dei Genesis, di Emerson Lake & Palmer, dei Jethro Tull. Tutto sparito. Mi accorsi anzi che avevo smesso già molto prima, quando mi ero trasferito a Locarno, due anni e mezzo prima. Avevo cominciato a vergognarmi dei miei sogni, delle mie speranze, del mio amore inutile, che non sapevo donare e che nessuno si sognava di darmi. Erano gli anni in cui ero stato ripetutamente picchiato dai poliziotti svizzeri, in cui erano arrivati i primi processi per diffamazione, ed altre cose orribili di cui oramai non ha più senso piagnucolare. E mia figlia Valentina non c’era più. Ancora oggi, la canzone che scrissi per lei, né io né lei la cantiamo, ma la sappiamo, eccome se la sappiamo… Non ascoltavo più musica, non leggevo più libri, ero morto dentro. Allora pensavo che fosse vergogna, una nuova timidezza, oggi so che non avevo più nulla per cui cantare. Mi ripetevo ogni mattina: devo solo funzionare, non posso lasciarmi andare. Senza cantare per sé stessi non si può vivere, ma solo funzionare. Cantare in pubblico non ha nulla a che vedere con cantare, è un’altra cosa e non ne voglio parlare qui. Cantare per se è pregare alla vita stessa, spezzare la catena del dolore, insegnare all’universo che ci siamo, che ci sono, che combatto. Ma poi fu Carsten, uno dei grandi amori della mia vita, uno dei miei amici più contrastati e di lunga data, colui che mi insegnò a pensare in tedesco, con tutta una cultura ed un universo di affetti dentro, prima ancora che quella lingua la parlassi. Carsten, che mi aiutò a scrivere i miei primi testi in tedesco. Carsten, che poi fu il cantante della band con cui girammo la Germania per alcuni anni. Fu Carsten a costringermi a cantare. Lui ed io, da soli. Cantai “Daniel”, una canzone di Elton John, con gli occhi gonfi di lacrime e colpi di tosse. Carsten mi disse che avevo una bella voce, e che se avevo una voce così, allora anche il mio cuore doveva essere bello. Cantammo ancora, non ricordo cosa, stavo imparando le canzoni tedesche che amo di più. Ed imparai a cantare per me, non per gli altri, per me. Per ricordarmi chi sono, per ricordarmi che sono, che non è ancora finita. Stasera, pensando all’Uomo di Cera, vedo chiaramente come io abbia accettato di sciogliermi, anche senza il sole, perché cantando grido con tutta la forza e la disperazione il mio amore per la vita, e so che tutti noi ne abbiamo uno, uguale, meraviglioso, forsennato, iroso, gradasso, immarcescibile, spaventato, buffo, maestoso, sovrannaturale. “Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa, ma il cuore di simboli pieno”. Hai ragione Francesco. E soprattutto cantiamo, quindi siamo.

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