Nei giorni scorsi è mancata una mia carissima amica, dopo una lotta terribile, coraggiosa e dolorosa con la leucemia. Il dolore della perdita è tutto di coloro che l’hanno amata, e mio personale, che le ho voluto un bene dell’anima. Ne parlo perché è una persona speciale, unica come lo siamo tutti, ma in un modo rocambolesco, avventuroso e stracolmo d’affetto ed allegria. E per questo, senza nominarla, volevo raccontare la sua storia, per come la so e la ricordo. Ho chiara in mente una sua foto da ragazzina, quando, uscita dal liceo, a Lipsia, aveva ottenuto il permesso di studiare giornalismo all’Università. Una concessione rarissima, collegata con una fedeltà comprovata di tutta la famiglia al partito unico, la SED. Eppure, una volta entrati, a parte tutto il cerimoniale leccato, barboso, opprimente e grigio dell’Apparato, andare all’Università, in un Paese (la DDR) in cui niente costava veramente denaro, e la socializzazione (compreso la libera sessualità) era fortemente incoraggiata, significava vivere una felice cavalcata tra cose ufficialmente proibite ma tollerate (come alcuni libri, la musica rock, il materialismo hegeliano, sparire per giorni in un bosco con un manipolo di matti). In quella foto, Lei è piena di sole, bellissima e timidissima, la si immagina piroettare per open air musicali, come i personaggi di “Hair” – e si vestiva come loro. Quella foto è dell’estate in cui aveva incontrato Lui, berlinese, faccia da orsacchiotto, estremamente intelligente e spiritoso, un briciolo di machismo da operetta, coronato da un paio di baffucci patetici che, ovviamente, Lei fece sparire per decreto. L’estate del loro amore. Poi viene il lavoro, tutto organizzato dallo Stato. Il matrimonio, il lavoro, i figli, tutto ad una velocità impressionante. Lei si occupa di temi culturali in un grande quotidiano nazionale, lui – nello stesso giornale – segue le questioni legate a Berlino, e diventa un reporter di punta del regime. Il simbolo di questo: ottengono un appezzamento nel bosco del Nord, con quattro casupole di non più di 30 metri quadri ciascuna, una accanto all’altra, per i componenti della famiglia di Lui. Una per sé, una per la mamma, una per la sorella, una per i suoceri. D’inverno lui ci va con gli amici e, sul laghetto gelato che sta lì dietro, gioca ad hockey su ghiaccio. D’estate si suona la chitarra, si chiacchiera e si beve intorno al fuoco, si cantano le canzoni meravigliose di una cultura che, di lì a poco, verrà stroncata dall’impeto della storia. Sono gli anni della “Leggenda di Paul e Paula”, un film d’amore duramente anti-regime, romantico come poche cose in una società che rifiuta il patetico, e che per questo, ancora oggi, fa piangere a tutti una lacrimuccia, quando ci si pensa. E poi il terremoto, la cosiddetta riunificazione delle due Germanie, la fine di tutto. I processi contro i fedeli al regime – e quindi contro TUTTI i giornalisti. Le umiliazioni, la scoperta dei tradimenti (ovvero che moltissimi tra gli amici ed i parenti erano contemporaneamente spie della Polizia e scrivevano relazioni quotidiane sul mondo dorato in cui credevano di aver vissuto. Lei viene mandata via, e solo con grande fatica ottiene un lavoro, mal pagato e disprezzato, in una radio del nuovo Stato. Lui, invece, giura fedeltà al nuovo sistema e, nello stesso giornale, che ora ha cambiato padrone, diventa il Grande Cacciatore di membri occulti del passato regime, che nella nuova Germania hanno saputo riciclarsi. Ma Lei scopre delle cose, di cui nemmeno tra loro parleranno mai, che non accetta, e lo lascia. Sparisce, lasciandogli i figli, nessuno sa dove sia finita, alcuni amici la incontrano con un nuovo compagno, non vuole più avere a che fare con nessuno. A questo punto io esisto di già, ma questa non è la mia storia. C’ero quando lui andò per due giorni a scrivere un articolo fuori città, ed al ritorno trovò la casa abbandonata, una lettera di commiato, i due bambini in lacrime. C’ero quando Lui, come se nulla fosse, organizzò la sua vita come se fosse chiaro che dovesse andare così. C’ero quando Lei tornò, senza annunciarsi, suonando alla porta di casa. Mi dissero: Non ne abbiamo parlato, non c’era bisogno, “man soll Dinge nicht zerreden”. Una bellissima frase tedesca, intraducibile, perché “zerreden” vuol dire parlare di qualcosa fino a distruggerla, mentirla, avvelenarla, disgustarsi. C’ero, quando hanno imparato ad amarsi in un modo nuovo, sereno, adulto, ed hanno imparato ad essere squadra, uniti sempre, comunque, davanti ad un mondo che non era più iil loro, che negava tutto ciò che avevano sognato ed in cui avevano creduto, nel quale vivevano un’esistenza necessariamente schizofrenica tra la persona pubblica e quella, segretissima, privata. Voi credete che nella DDR ci fosse repressione, ed avete ragione. Ma non immaginate quanto questa repressione sia cresciuta, oggi, specie per chi aveva un passato all’Est. C’ero quando Lei organizzò una festa indimenticabile per i suoi 50 anni, rimettendo insieme, per una notte, la band PROIBITA in cui lui aveva suonato da ragazzino. C’ero, perché volai in segreto dall’Italia e mi scapicollai in una Berlino coperta di neve per arrivare al luogo segreto in cui Lui ricevette questo dono, frutto del modo che Lei aveva di amare: allegro, sbarazzino, ancora le piroette nel bosco, una dolce ragazzina di 50 anni innestata nell’apparenza di una manager dei media, il lavoro della sua vita ufficiale. C’ero ai primi amori dei figli, in alcuni eventi tristi, che tutti dobbiamo affrontare, ad una certa età. C’ero in feste pantagrueliche in cui, insieme, facevamo la pasta per tutti, ma con almeno 12 condimenti diversi, un assaggio per ciascuna preparazione, ore di lavoro folle e divertentissimo, dei ricordi che adesso, ovviamente, mi squarciano la memoria per il dolore, perché Lei non c’è più, e quindi non lo faremo mai più. Loro c’erano alla mia indimenticabile festa per i 50 anni, una settimana di open air nel mio giardino, al Lago dell’Accesa, con me gli affetti di una vita da zingaro, 300 persone di 15 diversi Paesi, un ottovolante di cui ho una memoria rutilante e confusa, tanto fu pazzesco… E adesso la quiete, tremenda, schiacciati dall’assenza. Le sue vocine e vocione, i suoi scherzi, le sue faccette, il suo modo unico di essere affettuosa, apparentemente cinica, sempre positiva. Grazie a Lei, il mondo, che era divenuto così buio e tetro, restava quello dell’inizio: quello di questa canzone, già famosissima prima del trauma del 1990, in cui si spiega come l’amore siano due cuori in bicicletta che, uscendo nel parco, vadano a finire nella fatata Terra del Fuoco, una terra di baci, sole, sorrisi, profumata brezza di primavera – che è il ricordo che avrò per sempre di Lei. “La vita è ingiusta”, canta Herbert Grönemeyer nel suo capolavoro, “Der Weg”, la via. La vita è fuoco ed affetto, toglie e dà con la stessa lama arroventata di un coltello, e ti lascia i ricordi di chi, con la semplicità delle persone di vera intelligenza e talento, sapeva far sembrare tutto una favola a lieto fine.

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