Non serve sapere tutto di una persona, anzi. Più ne sai, oltre un certo limite, peggio è. D’accordo, magari dopo con l’affetto o la tensione sessuale si scavalcano anche siepi altissime, ma è meglio non sapere. Tutti hanno dolori e debolezze senza nome. Se diamo loro un nome, l’altra persona soffre. Per un breve attimo. Poi scopre che anche quel segreto poteva essere svelato senza gravi conseguenze, perché la sua coscienza di sé si ritira su un luogo ancora più lontano – ed inizia a combinare guai e dire bugie. Serve scoprire le bugie? No, non serve. Tanto lo si sapeva. Il guaio è che se non sputtani le bugie, dopo devi far finta di crederci. In questo continuo arroccarsi, le persone (tutte, io compreso), se trovano un punto che regge, nel marasma della confusione totale in cui viviamo, lo difendono a prescindere, e si illudono che quel dettaglio sia importante, importantissimo, decisivo. Allo stesso tempo si spera ardentemente di essere definiti, perché ci si sente visti e giustificati a vivere, ma poi sopravviene il sentirsi prigionieri della definizione e del giudizio altrui che, essendo in parte basato su balle, non ci fotografa davvero. Non ho una soluzione da proporre. In teoria, si dovrebbe chiudere con tutte le persone prigioniere di questo meccanismo, e restare soli. Specie quando si arriva al punto in cui tutto diventa un atto di fede inutile, cui si fa solo finta di credere. Anche qui aveva ragione Gaber: “Se un giorno noi cercassimo chi siamo veramente ho il sospetto che non troveremmo niente”.

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