Ci sono stato, a Humpolec. Una piccola città a metà strada tra Brno e Praga, paese natale di Ivan Martin Jirous, il poeta leader della band Plastic People of the Universe. Ci sono stato per caso, perché ricordavo dei boemi che, scappati da lì nel 1848, erano venuti a Roma a combattere per la Repubblica Romana – una storia che mi aveva raccontato Caesar, l’indimenticabile leader dei Karussell ed uno dei più grandi artisti della DDR. Andato anche lui, maledizione. Ci sono stato, e sono rimasto qualche minuto a pensare ad un uomo quasi dimenticato, che pure ha avuto tanta parte nella storia delle nostre vite. All’altezza di Humpolec, su quella che chiamare autostrada sarebbe un peccato di superbia, esattamente 24 anni fa, moriva in un banale incidente stradale, causato dal ghiaccio, Alexander Dubček. Colui che, ex clandestino ed ex operaio, a partire dal 1963, da Segretario Generale del Partito Comunista Cecoslovacco, aveva preso in mano i libri di Karl Marx e si era messo a cercare di attuarli per ciò che erano: un formidabile testo di economia applicata, che con una punta di realismo utopico sosteneva che l’economia funzionasse solo se tutti ne avessero giovamento – un giovamento nel livello di benessere generale, non solo e non tanto pecuniario. Credendo che il proletariato, acquisita la coscienza di sé, avrebbe portato il bello, l’umano, il bene comune al potere. Ovviamente Alexander Dubček sapeva benissimo che il mostro stalinista dell’Unione Sovietica fosse l’esatto contrario dell’utopia comunista – un gigante violento e barbaro, pronto ad affogare nel sangue chiunque osasse ribellarsi al riflusso in un medioevo di malattia ed ignoranza. Questo era già allora il tratto caratteristico del bolscevismo che fino alla grande crisi del capitalismo del 1974 aveva retto con l’orrore i destini dell’Europa Orientale e di parte dell’Asia. Alexander Dubček tentò di modificare il sistema economico (e quindi la società) senza mettere in discussione l’egemonia sovietica. Un miracolo di equilibrismo, quasi impossibile, reso vano dall’invidia e gelosia di altri dirigenti comunisti del suo stesso Paese, che convinsero Brezhnev a schiacciare il riformismo del governo di Praga. Quello che accadde lo sappiamo tutti. Alexander Dubček rapito e portato a Mosca, i carri armati per strada, Jan Palach che si dà fuoco, seguito da altri ragazzi disperati, una normalizzazione violentissima, l’ex capo del PC costretto a fare la Guardia Forestale per sopravvivere. Dopo il collasso dell’URSS, Alexander Dubček venne eletto alla Presidenza del Parlamento cecoslovacco, e si batté contro la scissione tra Cechia e Slovacchia, contro la legge sulle epurazioni dei vecchi leader comunisti, contro la deriva di estrema destra che insorgeva, nazionalista ed antieuropea. Alla sua morte lasciò Vaclav Havel da solo a battersi, il resto è storia. Detta così, sembra la biografia di un uomo che ha fallito. Invece no, si tratta della storia di un uomo pragmatico ed appassionato al contempo. Di un uomo che credeva, che aveva una direzione, che si assunse le responsabilità dei suoi atti, che non ha mai dubitato di fronte alla paura, che non si è ammazzato, che non è scappato, non si è piegato. Di un uomo che è rimasto sé stesso fino in fondo – né simbolo, né strumento di propaganda, ma solo un politico venuto dal basso, che più basso non si può. Un proletario, migrante per giunta, che parlava a voce bassa e non inneggiava allo sterminio di nessuno. Un uomo che servirebbe oggi, ovunque, per noi tutti. Perché la Primavera di Praga non è stata una battaglia contro il comunismo, ma contro la disumanità del potere cieco che, in nome dell’interesse dei pochi, è pronta a distruggere tutto. Che in nome dell’egoismo, è pronta a scagliare la rabbia della gente contro i più deboli ed indifesi, come se fossero loro il male della Terra. Che in nome della Nazione è pronta a sterminare gli ebrei, come fecero Nazisti e Bolscevichi. La Primavera di Praga, per la prima volta dopo la Repubblica Romana del 1849, è l’uomo che si alza in piedi e, sorridendo, chiede di smettere di fare cazzate ed ha un’idea alternativa per salvare capra, cavoli e futuro. Pace, prosperità, giustizia – tutte cose che si ottengono solo con la VERA consapevolezza e corresponsabilità di tutti. Io ci sono ancora, compagno Dubček. Che la parola compagno, accanto al tuo nome, non è più una vergogna, ma un segno di fraternità.

Lascia un commento