Come stamattina, forse cento anni fa, guardavo dalla finestra la nascita di un’indescrivibile mattina di sole, il petto stretto nel dolore della consapevolezza. Ho ancora nella bocca, nel naso, sulle mani, ovunque sulla pelle, il ricordo di una notte in cui ho cercato inutilmente di trasformare la mia solitudine nell’orgasmo altrui – quello di una donna, cui ero legato per contratto e per la condivisione di una figlia dolcissima e spaventata a morte. Per tutta la notte mi ero concentrato su quel particolare decisivo: mia figlia ha bisogno che io faccia questo. Mi erano passate avanti agli occhi immagini nitide di tutto ciò che non sarebbe mai accaduto nella mia vita (e difatti non accadde), e dell’umido altrui per confondere le lacrime di vittimismo. Ero molto vecchio, allora, e temevo (pigramente) che il destino fosse ineluttabile. Naturalmente lei se ne andò, portando via la mia topolina e sostituendola con un buco nero nel petto che non è mai guarito, nemmeno quando oggi, quella stessa topolina, madre due volte, mi si accoccola sulla spalla ed io grido il mio grazie al cielo che mi ha perdonato. Quel buco nero era però già nato in quella mattina di sole, quando avevo capito che non accade nulla che possa veramente cambiare la vita, se non una tragedia. Siamo esseri pigri, che si annoiano, e si inventano relazioni incommensurabili con persone che hanno bisogno di un pezzo di noi, e glielo cediamo volentieri al prezzo di un po’ di compagnia, purché fingano di credere che siamo ciò che non temiamo di mostrare di noi, o magari quel pochissimo di noi stessi che, deterministicamente, fingiamo di aver capito delle nostre dinamiche. Ma dentro, lì dove la lava scorre, al centro di quella voragine maledetta, che inghiotte tutto, non c’è appiglio, tutto viene annientato, nessun grido arriva. Già allora – oltre al cibo – funzionava fingere di amare persone ancora più pigre di me, persone che non avevano una vita propria, che si ridestavano come pupazzi quando li toccavo, e generavano un’immensa forza distruttrice, lasciandomi credere di potermi nutrire di quella forza e sentirmi meno solo. Ma quella mattina, dopo una notte di ciò che chiamereste sesso sfrenato e frasi profonde, e che io chiamerei delirio adolescenziale coitale, ero spossato. Non dalla parte fisica che, se non avessi avuto ovunque quel sapore straniero, avrei già dimenticato. Non dalla parte psicotica, ovvero il tentativo di salvare una baracca e dei burattini dopo che lo spettacolo era già finito da tempo ed il Lupo Cattivo aveva soffiato via gli zeppetti insulsi della baracca. Ero spossato dalla solitudine, dall’improvvisa, inebriante e desolante percezione del fatto che non sarei riuscito a fingere a lungo (con me stesso, con gli altri ci si riesce meglio) che quella persona, il cui unico pregio era che avesse un disperato bisogno di me, non fosse che uno specchio della mia paura di affrontare la mia solitudine con chiarezza, con coraggio, con decisione. Ma oggi sono molto più giovane. Mi alzo in piedi, fischiettando la mia canzone preferita sull’impossibile fine della solitudine, mi lavo i denti, e parto alla conquista di una nuova esistenza, brevissima, da falena, al termine della quale mi darò nuove vecchie risposte, presto dimenticate, e vincerò noia e spavento, perché amo troppo la vita per potermi concentrare a lungo sui miei orrori. Il petto è gonfio, certo. Ma i ricordi non vanno usati per allargare il forcipe della ferita, quanto per pettinare i radi capelli del tempo che mi è ancora regalato dal cielo.

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